lunedì 30 maggio 2022

Divino Narciso sulla Bella Dormiente

 

Castelnuovo Nigra, la fioritura dei narcisi al Pian delle Nere in una cartolina d’epoca

Lo spettacolare sbocciare del mito e del fiore a Castelnuovo Nigra

di Nadia Bontempo

Si annuncia come una magica nevicata fuori stagione, intorno alla seconda settimana di maggio, per proseguire, piogge permettendo, nelle due, tre settimane seguenti. Dalla piazza di Sale, capoluogo di Castelnuovo Nigra, si ammirano da qualche giorno, le candide ondate delle migliaia di narcisi in fiore negli alpeggi del Pian delle Nere e delle regioni Frera, Vasivresso, Capannone, Canavis, quasi come neve o come lo scherzo di uno spirito burlone, nelle nostre leggende lo spirit fulet, che li ha seminati così, a spaglio, come tante Vie Lattee di fiori.

Quegli alpeggi sono terre di mito, già in antichità rifugio dell’uomo selvatico, l’om salvé, eroe civilizzatore che insegnò ai montanari la cagliatura del latte e la fabbricazione del formaggio, fonte di proteine e di vita per le povere popolazioni delle nostre Alpi. Candido latte frutto delle mandrie che ancora oggi popolano quei declivi sulla Bella Dormiente.

Divino Narciso: il suo nome deriva dal greco “narkissos” a sua volta da “narke”, cioè stordimento o paralisi poiché gli antichi credevano che il profumo del fiore avesse proprietà ipnotiche. Narcissus poeticus, “narciso poetico”, il suo nome scientifico, celebra il suo profumo (inebriante fino alla narcosi) e la sua delicata bellezza, tale da meritare d’esser celebrata dai versi dei poeti.
Il famoso mito classico ci racconta del giovane e bellissimo Narciso che, specchiandosi nell’acqua limpida di una fonte, si innamorò perdutamente del proprio volto fino a morirne: in quel luogo nacque l’elegante, perfetto fiore che in questi giorni fa mostra di sé sui nostri pendii prealpini.

Il mito, raccontato, tra gli altri, da Ovidio nelle Metamorfosi, conobbe una fortuna straordinaria, fino a radicarsi nel nostro vocabolario e creando un immaginario sostenuto da opere pittoriche di sublime portata. Fin dall’antichità quel bellissimo volto specchiato alla fonte fu così amato da essere riprodotto nelle abitazioni dei patrizi romani (“Affresco con Narciso”, I sec. d.C., Casa di Marco Lucrezio Frontone, Pompei) per toccare poi imperitura fama nell’opera “Narciso” attribuita a Caravaggio e oggi alle Gallerie Nazionali Barberini Corsini di Roma. Un’immagine archetipica. Volto reale e volto riflesso si mostrano con eguale importanza nelle due porzioni speculari del quadro, mondo reale e sotterraneo: l’essenza del mito vi è rappresentata, cioè il momento in cui Narciso si china sulla fonte e tenta, rapito, di afferrare la propria immagine, una mano già nell’acqua che lo inghiottirà. Il suo volto, forse un autoritratto del Merisi, potrebbe tranquillamente essere quello di uno dei tanti margari delle nostre valli in un naturale gesto di inginocchiarsi a bere ad una fresca fonte.

Divino Narciso: a noi piace vederti e rivederti nelle fresche sorgenti di montagna dove i tuoi bianchi simulacri si moltiplicano nelle tiepide giornate di maggio, lassù sui pascoli. I sei candidi, lattei petali, perfetti ed aggraziati circondano una coroncina centrale gialla, bordata di arancione. In boccio invece, presentano la colorazione del burro di montagna. Tutto rievoca colori, sapori e fragranze in omaggio ai nostri sensi.

Il viaggiatore che in queste settimane raggiungerà Castelnuovo Nigra per ammirare questo tenero e potente spettacolo della natura sia accompagnato dalla meraviglia di una terra dove ancora riecheggia il mito, dove l’uomo selvatico si cela fra i dirupi e dove forte è la memoria degli antenati che da tempo immemorabile hanno celebrato con rispetto e stupore la bellezza e la fragranza del candido fiore.

 

Note: Un comodo accesso per godere del panorama e della fioritura dei narcisi è il Pian delle Nere, raggiungibile in auto. Da lì, con una passeggiata comoda di circa 40 minuti, si può raggiungere la località Vasivresso, incantevoli pascoli dove i narcisi sono ancora più fitti e profumati.

 

 

Affresco con Narciso, I°sec.d.C., Casa di Marco Lucrezio Frontone, Pompei


 

Caravaggio (attr.), Narciso, 1597-1599, Gallerie Nazionali Barberini Corsini, Roma.


 

giovedì 21 aprile 2022

Il nuovo che avanza (eccome, se avanza!)

da "Il dito nella piaga" di Fabrizio Dassano
Edito sul Risveglio Popolare di Giovedì 21 aprile 2022
 

 
    Non c’è che dire! Tra le varie cose che la pandemia ha cambiato vi è un concetto legato a due aspetti della vita civile: la reticenza e la fine di alcune buone maniere che in genere, anziché mettere in difficoltà il tuo interlocutore, lo pongano quanto meno in uno stato poco svantaggioso. 
 


    Mi spiego con qualche esempio. Eseguiti alcuni esami di laboratorio, pochi giorni dopo sono andato a ritirarne gli esiti. Non avevo colto che si potevano ritirare anche via internet, allora ho chiesto allo sportello se potevo farlo. Mi hanno risposto di sì, certamente, per evitare di affollare inutilmente il poliambulatorio, viste tutte queste tecnologie; però mi hanno spiegato che avrei dovuto dirlo prima, in fase di accettazione: ora era troppo tardi. Mentalmente ho ripercorso le fasi salienti della prenotazione fatta via internet appunto, ma non avevo colto questa sfumatura fondamentale. 
 
    Un amico, afflitto anch’egli dai problemi di salute dell’età ormai pronunciata, doveva raccogliere tutta l’urina delle ventiquattr'ore. Per non spendere una cifra nei contenitori sterili disponibili in farmacia, si è procurato delle tanichette dell’acqua distillata. Ma a volte le cose vanno differentemente da come si prospettano: neanche a farlo apposta la sua produzione personale nel giorno prima dell’esame è stata abnorme, tanto che ha dovuto implementare la dotazione di contenitori (anche se l’indicazione era che se ne sarebbe dovuto utilizzare uno unico). Stava per recarsi al centro prelievi della sua zona quando per scrupolo ha telefonato per sapere se doveva portare tutto quel liquido, magari con l’ausilio di un carretto. Dall’altro capo del telefono l’hanno scongiurato di non farlo, altrimenti poi all’ambulatorio si sarebbero arrabbiati: si doveva prendere una sola fialetta di tutta la raccolta. Lui ha ricontrollato sul suo foglio di istruzioni: c'erano altre informazioni, ma di quella sfumatura non vi era cenno. Per tutta risposta al telefono gli hanno chiesto: “Ma chi le ha dato quel foglio?”. E chi avrebbe dovuto darglielo se non chi aveva ricevuto la sua domanda di prenotazione? 

    Tra i misteri della reticenza e i nuovi atteggiamenti post pandemici ce ne sono altri, ma uno in particolare desta qualche pensiero. Spesso chi scrive o si occupa di pubblica cultura è chiamato ad andare a raccontare o istruire (ovviamente gratis) altri gruppi di persone. Con il coronavirus le più elementari norme di accoglienza sono svanite: non c’è più la bottiglietta d’acqua per il relatore, anche se è chiamato a parlare per due ore e s’è persa anche l’abitudine di offrire il caffè, anche solo della macchinetta a gettoni. Piccoli gesti che possono fare la differenza dell’accoglienza o piccoli gesti legati alle grandi catastrofi virali? Il dilemma persiste e ha radici lontane. Col distanziamento sociale e la mascherina non soltanto ci siamo occultati i connotati facciali, ma anche le voci sono cambiate. E chi è di udito debole ha poi ancora vissuto un secondo livello di distanziamento sociale. Quello di non capire cosa bofonchiano gli altri da dietro la maschera, immobili al di là di un vetro o un plexiglass!



venerdì 15 aprile 2022

Ivan il Terribile: il primo zar di Russia ... chi sarà l'ultimo?


Ivan IV conquista Kazan'. Dipinto di Petr Mikhailovich Shamshin (XIX secolo). Museo VV Vereshchagin, Mykolaïv, Ucraina - Foto: Culture Images / Album

Ivan IV, con intelligenza e capacità strategica, e con la forza e la crudeltà che gli sarebbero valse il soprannome, riunificò lo Stato vincendo mongoli e opposizioni interne e avviò l’espansione a Est che avrebbe portato la Russia fino al Pacifico

Fiumi d'inchiostro sono stati versati per interpretare in tutte le chiavi possibili la personalità umana e politica del sovrano russo che siamo abituati a chiamareIvan il Terribile (1533-1584). Nel corso del suo lungo regno, durato quasi un cinquantennio e contraddistinto da alcuni brillanti successi in politica estera e da una drammatica riorganizzazione degli apparati dello stato in politica interna, egli impose infatti un sigillo formidabile sulla storia russa, divenendone una delle figure principali e più controverse.

Il padre, Vasilij III, morì quando Ivan aveva solo tre anni. Per molti anni il giovane sovrano fu sottoposto alla tutela della famiglia principesca degli Šujskij, in una situazione per lui molto umiliante. Nel 1546, all'età di tredici anni, riuscì però a sottrarsi a questa tutela, facendo arrestare e uccidere Andrej Šujskij. Ebbe allora inizio la prima fase del suo regno, che viene solitamente valutata in modo positivo. Nel mese di gennaio del 1547 il quattordicenne Ivan fu incoronato zar, un titolo imperiale che deriva dal latino caesar e che implica la consapevolezza di un potere assoluto all’interno e del tutto indipendente verso l’esterno.
 
Il primo zar

Ivan IV è stato il primo sovrano russo a ricevere ufficialmente questo titolo, che impiegò sia all’interno del Paese sia nei suoi rapporti con l’estero. Il suo regno segnò dunque il definitivo consolidamento dell’assolutismo moscovita. Aiutato da un gruppo di consiglieri fidati (tra i quali il metropolita, o responsabile di una provincia ecclesiastica, Makarij, l’arciprete Sil’vestr e Aleksej Adašev) e sostenuto dall’amore della prima moglie, Anastasija Romanova, Ivan IV promosse nel 1549 un’assemblea nazionale di rappresentanti dei vari ceti – passata alla storia come zemskij sobor, il primo parlamento russo – per proporre l’approvazione di varie riforme. Nel 1550 presentò un nuovo codice legale, il Sudebnik, e l’anno successivo convocò un importante concilio della Chiesa russa, noto come il Concilio dei Cento Capitoli. Nel 1553 Ivan IV fece costruire una nuova e straordinaria chiesa, San Basilio, divenuta uno dei simboli principali di Mosca e della Russia. In quegli anni egli dedicò anche molta attenzione al rafforzamento dell’esercito, indispensabile per raggiungere gli ambiziosi obiettivi che il giovane sovrano si proponeva.

Poco dopo aver raggiunto la maggior età, Ivan IV si volse infatti contro i mongoli (o tatari) che nel 1240 avevano sottomesso il primo Stato russo, la Rus’ di Kiev. L’Orda d’Oro si era dissolta, ma i suoi eredi – i khanati di Kazan’, Astrachan’ e Crimea – continuavano a invadere e razziare i territori russi. Nel 1552 l’esercito di Ivan IV sconfisse e occupò il khanato di Kazan’, e quattro anni dopo la stessa sorte toccò a quello di Astrachan’.

Al di là del suo enorme significato storico-culturale come definitiva rivincita sugli antichi dominatori mongoli, questa vittoria diede a Mosca il controllo dell’intero bacino del fiume Volga e quindi delle vie commerciali verso la Persia e l’India. Fu allora, in effetti, che cominciò a costituirsi l’impero russo vero e proprio, caratterizzato non solo da un’enorme estensione, ma anche da un accentuato carattere multietnico.
 
Il terrore

Minor fortuna ebbero i tentativi di Ivan IV di ottenere uno sbocco sul Mar Baltico. Tra il 1558 e il 1663 la Russia riportò alcuni successi, ma negli anni successivi la ferma volontà degli stati europei di non permettere che il temuto “moscovita” potesse dotarsi di una posizione di rilevo sul Baltico rese vani i suoi ripetuti e dispendiosi sforzi. Queste guerre continue esasperarono le tensioni interne del Paese contribuendo all’instaurarsi del regime terroristico che caratterizzò la seconda parte del regno di Ivan IV. Indipendentemente dalle sue tendenze psicopatiche, la violenza inusitata dello scontro dello zar russo con la nobiltà ha un significato politico ben preciso. Nei secoli precedenti, durante il processo di unificazione delle terre russe sotto i Gran Principi di Mosca, i principi delle varie città avevano ceduto i propri appannaggi (in russo udel) in cambio di elevate cariche amministrative nella capitale del Paese.

Insieme alla potenza dello Stato moscovita era cresciuto anche il peso dei nobili (i boiari), come lo stesso Ivan IV aveva dovuto constatare durante la sua lunga minorità. Non era dunque impossibile che, come nel vicino stato polacco-lituano, si giungesse anche in Russia a un ordinamento di carattere aristocratico che limitava drasticamente il potere del sovrano. Un’avvisaglia di questa possibilità si ebbe già nel 1553, quando Ivan IV si ammalò gravemente e riuscì solo con grande difficoltà a ottenere dalla nobiltà un giuramento di fedeltà nei confronti di suo figlio Dmitrij. Il contrasto con i boiari crebbe negli anni successivi e quando, nel 1560, l’amata moglie Anastasija morì, Ivan IV diede inizio a una violenta repressione che colpì per primi i suoi antichi consiglieri, Sil’vestr e Adašev. 
 
Un’astuta strategia

Molti nobili russi cominciarono allora a trovare rifugio nel vicino stato polacco-lituano. Il momento principale della svolta politica di Ivan IV si ebbe nel 1564, quando egli si allontanò da Mosca e scrisse delle lettere al suo consigliere Makarij, nelle quali rimproverava la nobiltà di essere responsabile della divisione del Paese e minacciava di abdicare. Allora i boiari e il popolo si recarono da lui pregandolo di tornare a Mosca e rimanere al potere. Ivan accondiscese, ma pose condizioni quanto mai singolari e destinate a rivelarsi micidiali.

La Russia fu divisa in due parti, la zemščina e l’opričnina. Il primo termine viene dalla parola zeml’ja, “terra”, la seconda da oprič, che significa invece “a parte”. Nella zemščina continuava a vigere il precedente sistema politico-sociale, mentre l’opričnina venne sottoposta al controllo diretto e totale del sovrano. Questa politica fu realizzata con l’aiuto da una guardia del corpo divenuta tristemente famosa – i cosiddetti opričniki, capitanati dal famigerato Maljuta Skuratov – che infieriva su tutti gli avversari, o supposti tali, del nuovo ordine. Il Paese conobbe allora una devastante ondata di terrore. La resistenza dei boiari venne repressa nel sangue, le loro proprietà furono depredate o confiscate dallo stato; intere città considerate ribelli furono devastate e i loro abitanti vennero deportati o massacrati.

Novgorod, una ricca e potente città-Stato mercantile a nord-ovest di Mosca, collegata alla Lega Anseatica ed espressione di un modello politico ed economico che molti russi continuano a rimpiangere, venne colpita con particolare durezza. In effetti, il trionfo dell’autocrazia moscovita sulla “democrazia” di Novgorod ha impresso una svolta decisiva alla storia russa. In questi anni Ivan IV, che ebbe in rapida successione sei altre mogli, soffriva di incontrollabili scatti d’ira.

Il metropolita Filipp, che osò rimproverare il sovrano per i suoi crimini, venne assassinato nel 1568. Nel 1572 lo zar dichiarò l’abolizione dell’opričnina, che però continuò a esistere ancora per tre anni. Il momento culminante del terrore scatenato da Ivan IV si colloca tra il 1564 e il 1572, ma ancora nel 1581 egli uccise il suo primogenito in un accesso d’ira. Oltre che da queste violenze interne, gli ultimi anni del suo regno furono caratterizzati anche da numerose sconfitte militari. Nel 1582-83 la Russia dovette rinunciare a tutte le conquiste sul Baltico a favore di polacchi e svedesi. La potenza svedese, che sbarrava ai russi la via del Baltico costringendoli in questo modo a un’umiliante e svantaggiosa posizione commerciale, sarebbe stata infranta solo da Pietro il Grande, un secolo e mezzo dopo. Soltanto verso Oriente vi furono ancora dei successi durante il regno di Ivan IV.
 

Pietro il Grande. Ritratto di Paul Hippolyte Delaroche. XIX secolo

Foto: Fine Art / AGE Fotostock
 
La conquista della Siberia

Nel 1582 un piccolo esercito russo comandato dal cosacco Ermak, “il conquistatore della Siberia”, sconfisse e occupò un altro stato erede dell’Orda d’Oro, il khanato di Sibir’, situato poco al di là degli Urali e dal quale ricevettero il nome le immense distese siberiane. Ebbe allora inizio l’epica e inarrestabile penetrazione negli spazi della Siberia di mercanti, cacciatori e coloni russi che nel giro di pochi decenni arrivarono sino al Pacifico. Poco avvertito all’epoca, questo successo fu in effetti uno dei più notevoli del regno di Ivan IV, che morì improvvisamente nel 1584, forse avvelenato, come un’autopsia eseguita in epoca sovietica avrebbe dimostrato, ritrovando ingenti tracce di mercurio nei suoi resti.

Il suo regno è stato oggetto d'interpretazioni varie e contrastanti, simbolo per gli uni della ferocia “asiatica” dello stato russo, per gli altri dell’inflessibile (e benefica per l’intera nazione) volontà di coesione e unità. Entro certi limiti, peraltro, nella politica di Ivan IV si può vedere l’equivalente russo dello scontro che sovrani europei a lui contemporanei, quali Enrico VIII d’Inghilterra o Luigi XI di Francia, dovettero affrontare per vincere le residue velleità delle loro aristocrazie e instaurare una monarchia assoluta.

Ritratto di Ivan IV. Incisione del XVI secolo. Museo Storico, Mosca

Foto: Bridgeman / ACI
Del resto, come mostra la sua celebre corrispondenza con il principe Andrej Kurbskij, emigrato nello stato polacco-lituano ed esponente della tradizionale visione politica della nobiltà russa, lo stesso Ivan ebbe piena coscienza del significato politico della sua azione repressiva. Non a caso la storiografia sovietica (M. Pokrovskij, S. Platonov e altri) ha insistito sul carattere “progressivo” del governo di Ivan IV, tanto per i suoi successi in politica estera quanto per il definitivo superamento dell’anarchia “feudale”. Il suo terrore fu in effetti rivolto essenzialmente contro i membri dell’antica nobiltà, in parte con il favore del popolo. Lo stesso appellativo con cui è passato alla storia, groznyj, che viene impropriamente tradotto con “terribile”, significa in realtà “minaccioso” ed esprime più ammirazione e consenso che timore, come se la “minaccia” del sovrano fosse legittima e sostanzialmente benefica per l’insieme della nazione.

In questo senso la crudeltà politica di Ivan IV, al di là delle sue possibili patologie, sancì il consolidamento di un potere centrale assoluto in maniera molto più radicale e duratura di quanto stava avvenendo nell’Europa occidentale. Il significato storico del terrore di Ivan IV è quindi da vedere nella sostituzione – più o meno completa – dell’antica aristocrazia del sangue con una nuova, piccola, nobiltà strettamente dipendente dal sovrano che la dotava di terre in cambio di un servizio permanente. Questo sistema (in russo pomest’e) era assai simile a quello dei timar allora in vigore nell’Impero ottomano, che alcuni – in particolare il pubblicista Ivan Peresvetov – esaltavano quale modello per l’impero russo tanto nella sfera politica quanto in quella militare.
 

La cattedrale di San Basilio è in realtà un insieme di chiese, ciascuna custode dei propri tesori e dedicata a una diversa venerazione. Fu fatta costruire da Ivan IV nel 1553

Foto: Günter Gräfenhain / Fototeca 9x12
 

Il rafforzamento dello stato

Sotto Ivan IV, inoltre, la Russia si rafforzò sensibilmente verso Oriente ed entrò di slancio nell’ambito della grande politica europea, ma in una posizione ancora insufficientemente forte, come gli eventi dei successivi decenni, in particolare gli Anni dei Torbidi (1598-1613), avrebbero dimostrato. Solo l’azione di un altro sovrano, non meno terribile, vale a dire Pietro il Grande, avrebbe consentito la definitiva ascesa della Russia tra le grandi potenze europee e mondiali. 
 
 

A prescindere dalle pur importanti conseguenze interne ed esterne del suo regno, Ivan IV costituisce nella storia russa un modello politico imprescindibile, proprio per il suo essere “terribile”. Sotto di lui si è infatti manifestata per la prima volta in modo assolutamente chiara la natura autocratica del potere statale russo, destinata a perpetuarsi nei secoli pur nel mutamento delle strutture politiche e ideologiche. Un potere assoluto, sostanzialmente privo di contrappesi, rivolto soprattutto al rafforzamento dello stato e incarnato nei secoli successivi soprattutto dalle figure di Pietro il Grande e Stalin.

Non a caso quest’ultimo commissionò nel 1944 a Ejzentejn un film su Ivan il Terribile nel quale è evidente il parallelo storico tra le due figure. E, secondo alcuni, anche chi oggi regge dal Cremlino le sorti della Russia deve essere inserito in questa linea politica.

Bibliografia
Storica - A.Ferrari












martedì 12 aprile 2022

Ombre sulla Giornata del volo spaziale, dedicata a Gagarin

 

La Stazione Spaziale resta un'oasi fuori dal mondo

Yurij Gagarin, il 12 aprile 1961 è stato il primo uomo ad andare nello spazio © ANSA/EPA

La guerra in Ucraina allunga le sue ombre anche sulla Giornata Mondiale del Volo Umano nello Spazio.

Istituita nel 2011 dall'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) celebra l'inizio dell'era spaziale e Yurij Gagarjin, che il 12 aprile 1961 è stato il primo uomo ad affrontare un volo spaziale.
Mai, dal 2011, questa giornata arriva in un periodo così difficile per lo spazio, con lo stop di importanti cooperazioni spaziali, come la missione ExoMars per Marte, e che vede la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) come un'oasi che continua a funzionare regolarmente.

Istituita dell'Assemblea Generale dell'ONU per celebrare "l'inizio dell'era spaziale per l'umanità", la Giornata del volo umano nello spazio è nata per affermare l'importante "contributo della scienza e della tecnologia spaziale nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile e nell'aumento del benessere degli Stati e dei popoli, oltre a garantire la realizzazione della loro aspirazione a mantenere lo spazio esterno per scopi pacifici". Fra i suoi scopi c'è anche quello di sottolineare come lo spazio debba essere un territorio a beneficio dell'intera umanità, pacifico e senza confini.

Simbolo della giornata è Yurij Gagarjin che il 12 aprile del 1961 completò un'orbita attorno alla Terra a bordo di una capsula Vostok 1 raggiungendo una quota di 302 chilometri. Una data simbolo della competizione spaziale tra Unione Sovietica e Usa, che l'ONU definisce come una nuova 'dimensione' per tutta l'umanità. Iconici in tal senso sono anche i Voyager Golden Record, due dischi d'oro installati a bordo delle sonde Voyager lanciate negli anni '70 per esplorare i confini del Sistema Solare e ora in viaggio nello spazio interstellare, con all'interno un messaggio di pace da parte dell'intera umanità. Dischi che sono stati ricordati nella pagina dedicata alla Giornata sul sito dell'ONU: "L'impresa del progetto Voyager ci ricorda chi siamo, da dove veniamo e che dovremmo trattarci a vicenda con cura", ha commentato la direttrice dell'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari spaziali (UNOOSA), Simonetta Di Pippo.

Lo spazio però in questi mesi si è anche trasformato in territorio di propaganda politica, Per esempio, il capo dell'agenzia spaziale russa Roscosmos Dmitry Rogozin, da alcuni giorni ha scelto come immagine del suo profilo Twitter il volto di Gagarin. Le scelte del capo di Roscosmos hanno portato alla conclusione di alcune importati collaborazioni con l'occidente, tra cui la missione ExoMars verso Marte e l'uso europeo del lanciatore Soyuz.

Gagarin "non può essere oggetto di discussione politica" perché è "un simbolo per l'umanità", ha detto l'astronauta Samantha Cristoforetti, dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA).
Per il presidente dell'Agenzia Spaziale Italiana (ASI), Giorgio Saccoccia, a resistere, come "un'oasi di collaborazione" è la Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Nonostante tutto, ha aggiunto, "nelle scorse settimane abbiamo visto avvicendarsi equipaggi di nazionalità diverse e ogni volta abbiamo visto proseguire in modo nominale il mantenimento delle funzioni essenziali alla vita della ISS, sotto la responsabilità diversi partner". Segnale che "ci dispone bene per il futuro".

Fonte: ANSA


 

giovedì 7 aprile 2022

Uguali davanti alla morte


Funzionamento della ghigliottina
 

«Con la mia macchina, vi faccio saltare la testa in un batter d’occhio, e voi non soffrite». Questa frase fu riportata dal quotidiano francese Le Moniteur universel. Secondo il giornale, l'avrebbe pronunciata Joseph-Ignace Guillotin, un medico francese il cui nome è letteralmente e indissolubilmente legato alle decine e decine di morti – illustri e non – che lasciò dietro di sé la Rivoluzione francese. 

Ai tempi di Guillotin, l'ineguaglianza regnava sovrana anche quando si parlava di condannati a morte. Se i membri dell'aristocrazia venivano decapitati, si poneva invece fine alla vita dei delinquenti "comuni" con impiccagioni, torture e squartamenti. In nome del secondo pilastro della Rivoluzione francese – l'égalité – ci fu però chi propose di rendere nobili e popolo uguali davanti alla morte: «I delitti dello stesso genere verranno puniti con lo stesso tipo di pena, a prescindere dal rango o dalle condizioni del colpevole», affermava Guillotin il 10 ottobre 1789. 

La stesura finale del codice penale, che fu approvato il 25 settembre 1791, nei suoi articoli 2 e 3 afferma: «La pena di morte consisterà nella semplice privazione della vita, senza esercitare alcuna tortura sui condannati. A ogni condannato verrà tagliato il collo». Eppure la ghigliottina – o marchingegni simili nel funzionamento e nello scopo – esisteva fin dall'antica Roma.

Ghigliottina Romana (c 340 A.C.) Figlio del Console Tito Manlius eseguito mediante ghigliottina per ordine del padre

A volte, come in Inghilterra, era dotata di una lama ricurva; altre volte aveva nomi fuorvianti, come la scottish maiden – la donzella scozzese – delle Terre Alte; altre ancora il nome lasciava presagire il peggio, come nel caso della mannaia romana dello Stato pontificio.

Mannaia Romana dell'800 a forma di volpe

Guillotin ebbe il merito di proporre per primo un metodo d'esecuzione delle condanne a morte ugualitario. Ma il medico – ironia della sorte – non ebbe niente a che fare con l'implementazione della ghigliottina come strumento di morte. Nel marzo del 1792, l’Assemblea Legislativa, impegnata nella stesura del nuovo codice penale, incaricò il medico chirurgo Antoine Louis, segretario perpetuo dell’Académie de Chirurgie, dell’elaborazione definitiva del nuovo strumento per realizzare le esecuzioni. In base alle proposte di Louis, diversi artigiani avrebbero fabbricato prototipi per il «nuovo metodo di decapitazione».

Il prescelto fu quello di Tobias Schmidt, per la sua efficacia e anche per il costo previsto per la produzione “in serie” dell’apparato: si stabilì infatti che ogni dipartimento di Francia dovesse essere dotato di almeno una ghigliottina. Intorno al 10 aprile di 230 anni fa, vedeva dunque la luce la prima ghigliottina, che fu posta in opera il 25 aprile 1792 con l'esecuzione di Nicolas Pelletier, un giovane condannato per furto e omicidio. A partire da quel momento, la ghigliottina non smise di decapitare re e regine, personaggi illustri e semplici ladruncoli.

Pochi immaginavano che quello strumento di uguaglianza che era servito per decapitare – letteralmente – la monarchia francese, sarebbe stato usato pochi mesi dopo contro chiunque si opponesse alle posizioni del Comitato di salute pubblica. Come disse Bertrand Barère de Vieuzac, rivoluzionario e politico francese e uno dei principali organizzatori del regime del Terrore, «Bisogna che i nemici periscano... solo i morti non tornano indietro».

Durante l’Ancien Régime le autorità cercavano in ogni modo di imporre il rispetto della legge e del potere del sovrano, e a tale scopo comminavano pene esemplari per creare timore e garantirsi l’obbedienza dei sudditi. Strumento fondamentale e assai utilizzato era la pena di morte, che, con il pretesto di ottenere la confessione, era preceduta spesso da orribili supplizi.

Si trattava di un sistema punitivo profondamente iniquo. Infatti gli aristocratici erano esentati dalla tortura o dal maltrattamento fisico o psicologico, e quando erano condannati a morte venivano decapitati con un metodo rapido e apparentemente indolore (se realizzato da mano esperta). Al contrario, gli uomini e le donne del popolo venivano giustiziati con metodi brutali, come la forca, lo squartamento o il rogo. Queste esecuzioni erano solitamente precedute da torture stabilite dal giudice, che venivano inferte pubblicamente: dalla flagellazione alla tortura della ruota fino alla rottura di tutte le ossa del corpo o all’uso di pinze o tenaglie, con le quali si asportavano brandelli di carne.

Dibattiti sulla pena capitale

Nel corso del Settecento, il secolo dell’Illuminismo, molti giuristi e letterati denunciarono il ricorso alla tortura, la sproporzione delle pene e i privilegi dell’aristocrazia; alcuni arrivarono a chiedere l’abolizione della pena di morte. Si distinsero in questo senso Voltaire con il Trattato sulla tolleranza (1763) e Cesare Beccaria con Dei delitti e delle pene (1764). Entrambe le opere avrebbero ispirato le iniziative dei rivoluzionari francesi: una delle prime imprese che impegnarono l’Assemblea Nazionale Costituente fu l’elaborazione di un codice penale in accordo con i principi del diritto naturale, e fu in questo contesto che si tenne il dibattito sulla pena di morte.

Il 10 ottobre dell’anno 1789, Joseph Ignace Guillotin, un medico dell’età di 50 anni, presentò una proposta per stabilire l’uguaglianza di fronte alla legge anche nell’ambito del diritto penale: «I delitti dello stesso genere verranno puniti con lo stesso tipo di pena, a prescindere dal rango o dalle condizioni del colpevole», affermava. Questo principio, che ora sembra naturale, era rivoluzionario in Francia e impiegò anni per essere approvato nel resto dei Paesi. 

Il marchingegno di Guillotin

Guillotin non metteva in discussione la pratica della pena capitale. La sua proposta intendeva parificare le pene e contemporaneamente renderne più umana l’applicazione. Perciò, propose di estendere il metodo della decapitazione, fino ad allora privilegio dell’aristocrazia, a tutte le classi sociali. Allo stesso tempo, al fine di evitare gli incidenti e gli errori spesso commessi dai boia nell’uso dell’ascia o della spada, proponeva di utilizzare un sistema «il cui meccanismo tagliasse la testa in un battito di ciglia». Il riferimento di Guillotin a questo “marchingegno” di decapitazione fece poi molto discutere, ma è errata la credenza comune secondo cui fu lui l’inventore di quella che conosciamo come ghigliottina. Almeno dal XIII secolo in diversi Paesi d’Europa venivano utilizzati dispositivi simili, anche se non erano particolarmente comuni, e in ogni caso essi erano riservati agli esponenti delle classi sociali più alte. Certamente però Guillotin lavorò al suo perfezionamento.

Nell’ambito del dibattito sul nuovo codice penale, il 30 maggio del 1791 il deputato Louis-Michel Lepeletier de Saint-Fargeau fece un ulteriore passo proponendo l’abolizione della pena di morte. Il suo amico Robespierre fu uno dei pochi (si potrebbero contare sulle dita di una mano) ad appoggiare questa misura umanitaria. Ma lo sforzo compiuto da entrambi fu inutile: infatti, l’1 giugno del 1791 la stragrande maggioranza dei deputati votò a favore dell’esecuzione capitale. Lepeletier de Saint-Fargeau non si perse d’animo e due giorni più tardi propose l’adozione del principio di uguaglianza di fronte alla pena di morte: «Ogni condannato a morte verrà decapitato». 

La stesura finale del codice, che fu approvato il 25 settembre 1791, nei suoi articoli 2 e 3 afferma: «La pena di morte consisterà nella semplice privazione della vita, senza esercitare alcuna tortura sui condannati. A ogni condannato verrà tagliato il collo». In questo modo, l’uguaglianza di fronte alla legge si estendeva anche alla questione penale. Nel marzo del 1792, l’Assemblea Legislativa, impegnata nella stesura del nuovo codice penale, incaricò il medico chirurgo Antoine Louis, segretario perpetuo dell’Académie de Chirurgie, dell’elaborazione definitiva del nuovo strumento per realizzare le esecuzioni.

Efficienza mortale

Louis e il suo collaboratore Tobias Schmidt, un fabbricante tedesco di clavicembali, misero a punto un dispositivo che s'ispirava agli strumenti simili utilizzati negli altri Paesi europei, ma migliorandone la struttura e la funzionalità con l’obiettivo di ridurre il più possibile il dolore. Il contributo principale di Louis fu il modello con lama obliqua, «affinché tagli nettamente e raggiunga il suo obiettivo», secondo quanto da lui stesso affermato. Sia Louis sia Guillotin avrebbero in seguito preso a male il fatto che il loro nome venisse associato alla nuova invenzione, che presto fu conosciuta come louison o louisette e, più comunemente, con il nome di ghigliottina.

Il prototipo venne realizzato in due settimane, e poi messo alla prova su cadaveri animali e umani. Infine, la ghigliottina venne installata in Place de Grève, di fronte al Municipio di Parigi, e fu lì che il 25 aprile del 1792 Nicolas-Jacques Pelletier, accusato di rapina a mano armata, divenne il primo condannato a essere giustiziato con il nuovo strumento.

Nicolas-Jacques Pelletier, accusato di rapina a mano armata, divenne il primo condannato a essere giustiziato con il nuovo strumento
 

Il dispositivo sembrava essere destinato a sostituire i boia per i casi di delinquenza o criminalità comune. Ma appena pochi mesi dopo, il 21 di agosto del 1792, vennero portati alla ghigliottina due condannati politici: due servitori di Luigi XVI, che era stato deposto in seguito all’insurrezione del 10 agosto, accusati di attività controrivoluzionaria. Da quel momento, sotto il governo rivoluzionario che durerà fino alla caduta di Robespierre quasi due anni più tardi, la ghigliottina si trasformò nello strumento e nel simbolo della politica di terrore che la Rivoluzione aveva scatenato contro i suoi nemici intestini – gli aristocratici e i sostenitori dell’Ancien Régime – e come reazione di fronte alla minaccia dei poteri totalitari vicini.

I numeri del Terrore

Durante questo periodo il totale dei condannati messi a morte con la ghigliottina in tutta la Francia fu di 16.594 persone. Di questi, 2622 vennero giustiziati a Parigi, soprattutto con la ghigliottina che era stata collocata in Place de la Révolution (oggi Place de la Concorde); lì troveranno la morte Luigi XVI, Maria Antonietta e, dopo il colpo di Stato del Termidoro, lo stesso Robespierre. Questo fu il bilancio del periodo del Terrore, durante il quale fu compiuto un tentativo di controllare e centralizzare la violenza politica più generalizzata che era stata esercitata in quegli anni e che si calcola avesse mietuto fra le 35.000 e le 40.000 vittime, includendo le rivolte popolari, le esecuzioni sommarie e le morti nelle carceri.

Terminato il Terrore, la ghigliottina non cadde in disuso: continuò a essere utilizzata durante il Direttorio, da Napoleone e da tutti i regimi successivi, per quasi due secoli. L’ultima esecuzione con questo metodo venne effettuata nel 1977, quattro anni prima dell’abolizione della pena di morte.

 

Nemo

Bibliografia
Fonte: Storica - A. Palumbo II.IV.MMXXII

 

 

 

venerdì 1 aprile 2022

Bandiere e vessilli che raccontano la storia


Immagine geopolitica dell'ex URSS


Quando, nel 1991, l'URSS smise ufficialmente di esistere, i Paesi nati dalle sue ceneri adottarono simboli d'identità nazionale che si rifacevano a un'epoca anteriore ai tempi bui del regime.

Immagine geopolitica dell'Ucraina
 
È il caso dell'Ucraina, il cui parlamento scelse di rappresentare il Paese con i colori giallo e blu, simboli della lotta ucraina contro l'impero Austro-Ungarico e contro l'impero russo del XIX e XX secolo.
Dal canto suo, la duma statale russa richiamò i tre colori adottati in maniera non ufficiale all'epoca dello zar Pietro il Grande: il bianco, l'azzurro e il rosso. Trent'anni dopo, la scelta dei colori può aiutarci a comprendere il particolare momento che i due Paesi stanno vivendo.

Stemma Federazione Russa
Secondo la leggenda, la bandiera russa fu disegnata dallo zar Pietro il Grande dopo una visita nei Paesi Bassi allo scopo di modernizzare la flotta russa: il sovrano voleva dotare le sue navi di un emblema e aveva trovato ispirazione nel vessillo olandese. Ci sono però altre ipotesi al riguardo: potrebbe essere ispirata allo scudo del Granducato di Mosca – uno dei maggiori principati russi del Medioevo –, o si tratterebbe dei colori indossati dalla Vergine Maria, protettrice del Paese. Ecco dunque che la nuova bandiera russa rappresentava la grandezza zarista, il potere militare e la fede cristiana del popolo russo. Tre elementi che ancora oggi sono capisaldi del governo di Vladimir Putin, leader del Paese dal 2000.

Immagine (bandiera) ispirata ai cieli azzurri ed alle immense distese di grano dell'Ucraina

Secondo la tradizione, invece, i colori della bandiera ucraina rifletterebbero i colori del cielo sui campi di grano dorato. D'altra parte gli stessi colori erano stati adottati nel 1848 dai rivoluzionari di Galizia, la regione occidentale del Paese alla frontiera con la Polonia, che lottavano per la creazione di una nazione ucraina sotto il dominio dell'impero Austro-Ungarico. Di nuovo, l'attuale vessillo si richiama a un passato in cui il popolo rivendicava un'identità nazionale indipendente dal giogo straniero – sia austriaco, sia russo.

Gli emblemi di Russia e Ucraina

Tuttavia bisogna ritornare a secoli addietro per comprendere appieno fino a che punto s'intreccino passato e futuro dei due Paesi. Oltre mille anni fa la realtà dominante nel territorio era la Rus' di Kiev, una federazione di tribù di slavi orientali che tra il IX e il XIII secolo si estese tra il mar Baltico e il mar Nero. Questo primo grande stato slavo della storia fu governato da Kiev dalla famiglia Rurik, che adottò un tridente – forse simbolo della Santissima Trinità o un falco stilizzato – come simbolo dinastico. Lo stemma fu recuperato nel XX secolo dall'effimera Repubblica Nazionale d'Ucraina (1918 e il 1920) e ispirò l'attuale emblema dell'Ucraina. Approvato nel 1992 dalla Verkhovna Rada – il Consiglio Supremo –, lo stemma riprende i colori della bandiera: un tridente d'oro su uno scudo blu. Per l'ex capo di stato ucraino Volodímir Borísovich, «il tridente per gli ucraini è un simbolo di libertà e indipendenza dello stato».

Nel caso della Russia, il suo stemma attuale rappresenta un'aquila bicefala d'oro su uno sfondo rosso. L'animale tiene tra gli artigli uno scettro e un globo; sopra le sue teste ci sono tre corone e sul petto c'è un altro scudo in cui San Giorgio uccide un drago. La sua origine risale agli emblemi usati dai governanti dei principati emersi nella regione dopo la disintegrazione della Rus' di Kiev nel XIII secolo e ripercorre la storia del Paese dalle sue origini fino all'epoca d'oro degli zar: oggi le corone imperiali rappresentano l'unità e la sovranità della Russia, mentre il globo e lo scettro sono simboli tradizionali del potere statale e dell'autorità. Dal canto suo, il cavaliere che uccide il drago è considerato una delle più antiche rappresentazioni della lotta tra il bene e il male e della difesa della patria.

Solo simboli? Forse. O forse auspici – da entrambe le parti – di una storia che ripete sé stessa.



Nemo



Bibliografia:
Storica - Annalisa Palumbo

martedì 29 marzo 2022

Oltre il Canavese: Erasmo da Predjama e il castello nella roccia

Il Canavese è terra di Storia, di Cultura, di Arte, di Scienza e di Conoscenza, origine di personaggi illustri e famosi...
Vi proponiamo in anteprima un piccolo assaggio della nuova rubrica "Oltre il Canavese" che a far data dal 1° aprile 2022 sarà il puntaspilli dell'extra-canavesano.

Figura leggendaria, Erasmo da Predjama viene considerato ancora oggi una sorta di Robin Hood sloveno. Schieratosi con Mattia Corvino nella guerra contro l’imperatore Federico III, nascosto nel suo castello nella roccia si fece beffe degli assedianti fino alla tragica fine.

Ci sono personaggi dei quali la storia ha perduto le tracce, e che ciononostante entrano nella leggenda per aver compiuto in vita imprese eccezionali. Questo è il caso del barone Erasmo di Lueg, signore di Predjama, che le narrazioni successive hanno paragonato a una sorta di Robin Hood sloveno. La sua vicenda è strettamente legata alla fama del suo castello, Castel Lueghi, il più grande maniero al mondo costruito nella roccia. Situato a pochi chilometri dalle grotte di Postumia, vicino al confine italo-sloveno, si eleva lungo 123 metri di parete. Noto anche col nome di "castello di Predjama", che in lingua slovena significa appunto “davanti alla grotta”, venne costruito nel 1202 e successivamente ristrutturato nel 1274 dagli abati di Aquileia prima di passare, nel XV secolo, nelle mani della famiglia Lueger (o Luegger).

Erasmo Lueger nacque attorno al 1420 da una famiglia della piccola nobiltà goriziano-carniola, vassalli degli Asburgo. Suo padre, Nikolaj, era governatore imperiale di Trieste. Non sappiamo molto della sua gioventù, se non che dopo aver dimostrato eccellenti capacità in combattimento entrò a far parte del seguito dell'imperatore Federico III d'Asburgo, che raggiunse a Vienna. La vox populi narra le imprese di Erasmo, che avrebbe “rubato ai ricchi per dare ai poveri” come il più celebre Robin Hood, nascondendosi però non nella foresta, bensì nel castello di famiglia abbarbicato nella roccia. Vittime privilegiate erano i mercanti che attraversavano la zona per recarsi da Trieste a Vienna. Quel che è invece certo, è che nel 1478 Erasmo venne nominato barone dall’imperatore e si ritirò nel suo castello.

Ritratto moderno di Erasmo da Predjama Foto: Park Postojnsjka Jama
Il voltafaccia di Erasmo

La vita del signore di Predjama finì per intrecciarsi alle vicende legate al trono imperiale. Federico III era stato incoronato imperatore del Sacro romano impero a Roma nel 1452, ma non era riuscito nonostante gli sforzi a imporsi in maniera stabile su Boemia e Ungheria. Il suo antagonista diretto era l'ungherese Mattia Corvino che, dopo un periodo di prigionia per ordine del re di Boemia Giorgio Poděbrady, nel 1458, ancora in carcere, era stato acclamato re d'Ungheria. Tornato in patria dovette comunque combattere contro i nobili che sostenevano Federico III. Le campagne di Corvino contro gli Asburgo portarono alla guerra d'Austria, che si protrasse fra il 1477 e il 1488.

Erasmo, che fino a quel momento aveva servito l'imperatore, cambiò bandiera e passò a sostenere Mattia Corvino. Pare che il motivo risiedesse in una vicenda personale: in seguito a una rivolta il maresciallo dell'esercito imperale Pappenheim avrebbe fatto arrestare e decapitare Andrej Bamkircher (1420-1471), amico fraterno del signore di Predjama. Questi lavò l'affronto col sangue, scatenando le ire di Federico III, che era imparentato con la vittima. Rinchiuso nelle prigioni di Lubiana, Erasmo riuscì a scappare, e dopo essersi alleato con Mattia Corvino cominciò a razziare i possedimenti asburgici in Carniola.
 
 
Mattia Corvino in un ritratto attribuito ad Andrea Mantegna Foto: Pubblico dominio
L'assedio di Predjama

Erasmo si dette quindi al banditaggio, facendo base nel suo inaccessibile maniero. Via via le scorrerie divennero sempre più feroci e frequenti, tanto che l'imperatore dovette correre ai ripari e nel 1483 diede l'ordine di assediare il castello di Predjama per porre fine alle incursioni del suo signore. A capo dell'operazione fu messo il governatore di Trieste, Gaspare Ravbar. Le cose però presero una piega imprevedibile: gli abitanti della fortezza non sembravano affatto provati dalla lunga clausura. Anzi, Erasmo si permetteva addirittura di sbeffeggiare i nemici inviando loro dei doni alimentari come carni arrostite e all'inizio dell'estate addirittura delle ceste di ciliegie appena colte. Gli assedianti cominciarono a disperare, e fra loro iniziarono a serpeggiare storie di spiriti che avrebbero protetto Erasmo e i suoi uomini: dicerie avvalorate da sinistri suoni notturni provenienti dalle viscere della terra.

In realtà, quel che le truppe assedianti ignoravano era che alle spalle del maniero si apriva una serie di grotte carsiche e intricati cunicoli sotterranei dai quali gli assediati potevano uscire per rifornirsi di cibo. Non solo, ma la naturale umidità della grotta forniva acqua che veniva raccolta in una cisterna. I rumori che gli uomini di Ravbar sentivano di notte non erano altro che gli echi provenienti dalle cavità della grotta. Ma, poiché i soldati ignoravano tutto ciò, la fama sinistra del castello non faceva che crescere, mese dopo mese.
 

Castel Lueghi incastonato nella roccia Foto: Park Postojnsjka Jama
 

Espugnare la rocca sembrava impossibile, dal momento che era protetta da un precipizio e le sue pareti costruite in pietra che resisteva alle cannonate. L'unica possibilità di vittoria per Ravbar era prendere per fame gli assediati, ma anche quella tecnica pareva destinata a fallire. Alla fine la svolta arrivò da un vile tradimento. Pare infatti che un servo di Erasmo avesse svelato agli assedianti l'unico punto debole del maniero: la parete in muratura della latrina. Fu così che dopo un assedio durato (secondo la leggenda) un anno e un giorno, il traditore mise un segnale sulla finestra – qualcuno parla di una candela, altri di una bandiera – nel momento in cui Erasmo si ritirò nella latrina. Qui venne colpito alla testa da una palla di cannone e morì sul colpo.

Si concludeva così l'assedio di Predjama. Secondo la leggenda, la compagna di Erasmo piantò un tiglio davanti alla chiesetta di Nostra Signora dell'Addolorata, sulla piazza del villaggio. L'albero è ancora lì, dopo secoli, a ricordare la storia di Erasmo, il bandito di Predjama.

Nemo
 
Fonte Storica
Martina Tommasi
Medioevo - Personaggi