martedì 29 marzo 2022

Oltre il Canavese: Erasmo da Predjama e il castello nella roccia

Il Canavese è terra di Storia, di Cultura, di Arte, di Scienza e di Conoscenza, origine di personaggi illustri e famosi...
Vi proponiamo in anteprima un piccolo assaggio della nuova rubrica "Oltre il Canavese" che a far data dal 1° aprile 2022 sarà il puntaspilli dell'extra-canavesano.

Figura leggendaria, Erasmo da Predjama viene considerato ancora oggi una sorta di Robin Hood sloveno. Schieratosi con Mattia Corvino nella guerra contro l’imperatore Federico III, nascosto nel suo castello nella roccia si fece beffe degli assedianti fino alla tragica fine.

Ci sono personaggi dei quali la storia ha perduto le tracce, e che ciononostante entrano nella leggenda per aver compiuto in vita imprese eccezionali. Questo è il caso del barone Erasmo di Lueg, signore di Predjama, che le narrazioni successive hanno paragonato a una sorta di Robin Hood sloveno. La sua vicenda è strettamente legata alla fama del suo castello, Castel Lueghi, il più grande maniero al mondo costruito nella roccia. Situato a pochi chilometri dalle grotte di Postumia, vicino al confine italo-sloveno, si eleva lungo 123 metri di parete. Noto anche col nome di "castello di Predjama", che in lingua slovena significa appunto “davanti alla grotta”, venne costruito nel 1202 e successivamente ristrutturato nel 1274 dagli abati di Aquileia prima di passare, nel XV secolo, nelle mani della famiglia Lueger (o Luegger).

Erasmo Lueger nacque attorno al 1420 da una famiglia della piccola nobiltà goriziano-carniola, vassalli degli Asburgo. Suo padre, Nikolaj, era governatore imperiale di Trieste. Non sappiamo molto della sua gioventù, se non che dopo aver dimostrato eccellenti capacità in combattimento entrò a far parte del seguito dell'imperatore Federico III d'Asburgo, che raggiunse a Vienna. La vox populi narra le imprese di Erasmo, che avrebbe “rubato ai ricchi per dare ai poveri” come il più celebre Robin Hood, nascondendosi però non nella foresta, bensì nel castello di famiglia abbarbicato nella roccia. Vittime privilegiate erano i mercanti che attraversavano la zona per recarsi da Trieste a Vienna. Quel che è invece certo, è che nel 1478 Erasmo venne nominato barone dall’imperatore e si ritirò nel suo castello.

Ritratto moderno di Erasmo da Predjama Foto: Park Postojnsjka Jama
Il voltafaccia di Erasmo

La vita del signore di Predjama finì per intrecciarsi alle vicende legate al trono imperiale. Federico III era stato incoronato imperatore del Sacro romano impero a Roma nel 1452, ma non era riuscito nonostante gli sforzi a imporsi in maniera stabile su Boemia e Ungheria. Il suo antagonista diretto era l'ungherese Mattia Corvino che, dopo un periodo di prigionia per ordine del re di Boemia Giorgio Poděbrady, nel 1458, ancora in carcere, era stato acclamato re d'Ungheria. Tornato in patria dovette comunque combattere contro i nobili che sostenevano Federico III. Le campagne di Corvino contro gli Asburgo portarono alla guerra d'Austria, che si protrasse fra il 1477 e il 1488.

Erasmo, che fino a quel momento aveva servito l'imperatore, cambiò bandiera e passò a sostenere Mattia Corvino. Pare che il motivo risiedesse in una vicenda personale: in seguito a una rivolta il maresciallo dell'esercito imperale Pappenheim avrebbe fatto arrestare e decapitare Andrej Bamkircher (1420-1471), amico fraterno del signore di Predjama. Questi lavò l'affronto col sangue, scatenando le ire di Federico III, che era imparentato con la vittima. Rinchiuso nelle prigioni di Lubiana, Erasmo riuscì a scappare, e dopo essersi alleato con Mattia Corvino cominciò a razziare i possedimenti asburgici in Carniola.
 
 
Mattia Corvino in un ritratto attribuito ad Andrea Mantegna Foto: Pubblico dominio
L'assedio di Predjama

Erasmo si dette quindi al banditaggio, facendo base nel suo inaccessibile maniero. Via via le scorrerie divennero sempre più feroci e frequenti, tanto che l'imperatore dovette correre ai ripari e nel 1483 diede l'ordine di assediare il castello di Predjama per porre fine alle incursioni del suo signore. A capo dell'operazione fu messo il governatore di Trieste, Gaspare Ravbar. Le cose però presero una piega imprevedibile: gli abitanti della fortezza non sembravano affatto provati dalla lunga clausura. Anzi, Erasmo si permetteva addirittura di sbeffeggiare i nemici inviando loro dei doni alimentari come carni arrostite e all'inizio dell'estate addirittura delle ceste di ciliegie appena colte. Gli assedianti cominciarono a disperare, e fra loro iniziarono a serpeggiare storie di spiriti che avrebbero protetto Erasmo e i suoi uomini: dicerie avvalorate da sinistri suoni notturni provenienti dalle viscere della terra.

In realtà, quel che le truppe assedianti ignoravano era che alle spalle del maniero si apriva una serie di grotte carsiche e intricati cunicoli sotterranei dai quali gli assediati potevano uscire per rifornirsi di cibo. Non solo, ma la naturale umidità della grotta forniva acqua che veniva raccolta in una cisterna. I rumori che gli uomini di Ravbar sentivano di notte non erano altro che gli echi provenienti dalle cavità della grotta. Ma, poiché i soldati ignoravano tutto ciò, la fama sinistra del castello non faceva che crescere, mese dopo mese.
 

Castel Lueghi incastonato nella roccia Foto: Park Postojnsjka Jama
 

Espugnare la rocca sembrava impossibile, dal momento che era protetta da un precipizio e le sue pareti costruite in pietra che resisteva alle cannonate. L'unica possibilità di vittoria per Ravbar era prendere per fame gli assediati, ma anche quella tecnica pareva destinata a fallire. Alla fine la svolta arrivò da un vile tradimento. Pare infatti che un servo di Erasmo avesse svelato agli assedianti l'unico punto debole del maniero: la parete in muratura della latrina. Fu così che dopo un assedio durato (secondo la leggenda) un anno e un giorno, il traditore mise un segnale sulla finestra – qualcuno parla di una candela, altri di una bandiera – nel momento in cui Erasmo si ritirò nella latrina. Qui venne colpito alla testa da una palla di cannone e morì sul colpo.

Si concludeva così l'assedio di Predjama. Secondo la leggenda, la compagna di Erasmo piantò un tiglio davanti alla chiesetta di Nostra Signora dell'Addolorata, sulla piazza del villaggio. L'albero è ancora lì, dopo secoli, a ricordare la storia di Erasmo, il bandito di Predjama.

Nemo
 
Fonte Storica
Martina Tommasi
Medioevo - Personaggi

giovedì 24 marzo 2022

GENERAZIONE Z

Prologo...

da Open Online del 21 febbraio 2022

«La Z è come svastica e falce e martello, va messa al bando»

Il mistero della lettera “Z” sui carri armati russi al confine con l’Ucraina

Una lettera Z appare sui carri armati russi e sulle file di convogli che si stanno muovendo verso il confine con l’Ucraina. A notarla i media britannici, tra cui il Telegraph. Le lettere sono disegnate all’interno di un quadrato bianco su carri armati, cannoni semoventi, camion di carburante e veicoli di rifornimento e l’ipotesi è che servano per determinare dei ruoli specifici in un qualche tipo di operazione militare. Il canale indipendente russo di Telegram Hunter’s Notes, che monitora da vicino i movimenti militari, ha affermato che «tutte le attrezzature (contrassegnate con “Z”) sono state viste vicino a Kursk e nella regione di Shebekino a Belgorod» al confine con l’Ucraina. Circa 200 veicoli militari sono stati avvistati nell’area, e poiché i contrassegni “Z” sono stati «applicati frettolosamente», il canale suggerisce che «abbiamo a che fare con un certo gruppo di truppe a cui sono stati assegnati compiti e piani per il prossimo futuro».
Altre ipotesi suggeriscono che la sigla serva a proteggere le forze russe dal fuoco amico dei separatisti del Donbass, in caso di invasione. I carri militari hanno sfilato per le strade di Shebekino, 28 chilometri a sud-est di Belgorod. E le immagini sono finite su Tik-Tok. . Secondo l’analista Rob Lee, che ne ha parlato su Twitter, la «Z» potrebbe riferirsi a diversi contingenti assegnati all’invasione: «Sembra che le forze russe vicino al confine stiano dipingendo dei marcatori, in questo caso una lettera, per identificare diversi livelli e task force». Le teorie più fantasiose hanno invece spiegato la «Z» collegandola al nemico numero uno della Russia, il presidente ucraino Zelensky.

Esegesi...
 


FORSE È VERO CHE SI STAVA MEGLIO UNA VOLTA, MA INDIETRO NON SI PUÒ (e non si deve) TORNARE
 
Generazione Z: è questo l’appellativo utilizzato per indicare i nati dal 1996 al 2010. Sono i bambini e i ragazzi che oggi hanno tra gli 12 e i 28 anni e sono la generazione dei nativi digitali, i First Connected Kids, coloro che sono cresciuti in un mondo già tecnologico e altamente informatizzato. I post- Millennials posseggono una spiccata tendenza all’autonomia, alla non-discriminazione, alla ricerca del contatto con il mondo e le sue differenti culture; per questo sono amanti dei viaggi, delle piattaforme sociali attraverso le quali fare esperienza del nuovo e del diverso, di tutto ciò che è creativo e innovativo. Sono altresì consapevoli che il mondo è nelle loro mani e che per possederlo a volte basta “swippare” con un dito su un display LCD. Di loro si parla poco – o comunque non si parla abbastanza – ed è per questo che spesso gli adulti non sono in grado di comprenderli, di aiutarli, di indirizzarli e di rispondere alle reali incombenze a cui un Centennials – gli appellativi sono molteplici – si trova a dover far fronte.

L’adulto di riferimento della Generazione Z – Millennial se si è fortunati, Generazione X nel più comune dei casi – ha subìto sulla propria pelle i cambiamenti della società degli ultimi 35 anni e li ha accolti con iniziale sfiducia, riluttanza, preoccupazione, diffidenza. L’uomo e la donna che oggi hanno superato i 40 anni di età, hanno visto scomparire la lira, le cabine telefoniche, le televisioni a tubo catodico, i mangiacassette e poi anche – come se non bastasse – i lettori CD, i piccoli negozi di quartiere, il telefono fisso, i rullini fotografici, i termometri a mercurio e persino le mezze stagioni. In buona sostanza si sono visti catapultati in un mondo diverso, per certi aspetti del tutto nuovo, in cui ciò che era familiare o è scomparso, o si è evoluto. Hanno dato alla luce i loro figli in questa nuova società digitalizzata senza essere del tutto equipaggiati per accompagnarli a crescere in essa. Tutto intorno a loro si evolve e starvi al passo è piuttosto complicato, cosa che non si può certo dire per i Centennials che sono, al contrario, in grado di adeguarsi e adattarsi ai cambiamenti tecnologici e sociali cui si va incontro di anno in anno. È in questo contesto e in questi gap generazionali che trova luce la recente proposta tesa a valutare una reintroduzione del sevizio di leva militare obbligatorio per i giovani tra i 18 e i 28 anni, dunque la fascia d’età che comprende gli Younger Millennials e gli Older Gen Z.

Pur essendo stata inizialmente respinta, la proposta circa il servizio militare ha destato un – seppur flebile – clamore per via dei pareri discordanti e diametralmente opposti espressi in relazione ad essa. Una buona parte della popolazione adulta italiana ritiene che la leva militare sia lo strumento adatto attraverso cui educare i giovani al rispetto, al senso del sacrificio e dell’impegno, alla collaborazione e condivisione con i propri compagni evitando l’isolamento provocato dalle nuove tecnologie, all’acquisizione di regole della buona convivenza e del vivere civile, all’indipendenza e all’obbedienza. Al contrario, molti si sono espressi con opinioni avverse ritenendo che il servizio militare sia fondato su un metodo obsoleto e coercitivo che nulla possa offrire di educativo e formativo e che potrebbe altresì danneggiare, più che rinforzare, un giovane che sta per affacciarsi al mondo dell’università o del lavoro. Di fronte a tale parallelismo è opportuno interrogarsi e cercare di indagare a fondo la questione, poiché la tematica va ben oltre il mero schieramento tra chi è d’accordo e chi non lo è, tra chi è a favore e chi contro, tra chi è troppo rigido e chi troppo lassista.

La proposta di reintroduzione della leva militare obbligatoria è cruciale e fortemente rappresentativa del nostro Paese, che si dimostra nuovamente essere una nazione vecchia, governata da giovani e meno giovani perlopiù legati ad una mentalità arcaica, incapaci di innovazione e di scelte audaci, impossibilitati ad uscire dalla logica dei bianco/nero, noi/loro, sì/no dimenticando che esistono anche il grigio, la comunità e il "dipende". Il servizio di leva obbligatoria nacque ancor prima dell’unità d’Italia e si estese ufficialmente a tutto il territorio nazionale nel 1875. Tutti i cittadini maschi dovevano dedicare un anno o più della loro vita all’addestramento militare in contesti spesso lontani dalla propria regione di origine e dagli affetti. Gli scopi fondanti di tale misura risultano essere l’educazione dei giovani e l’ampliamento delle forze armate addestrate, escludendo le donne che di fatto sono entrate a far parte delle forze armate dell’esercito italiano negli ultimi decenni del ‘900. Nel 2004, constatato il generale e consolidato periodo di pace internazionale, l’obbligatorietà del servizio venne sospesa – non abolita – con la Legge Martino (L. 23 agosto 2004, n. 226) che sanciva di fatto la possibilità futura di reintroduzione dell’obbligatorietà qualora vi fossero state necessità incombenti di sicurezza e difesa dello Stato. È da qui che si riparte oggi: quella sospensione decretata 18 anni fa potrebbe essere revocata.

Come si evince dalla proposta di legge n. 4594 del 2017, la leva obbligatoria consentirebbe di ricostruire nei giovani una cultura della solidarietà e della collaborazione tra i cittadini, di restituire un senso di appartenenza e amore per la patria e, infine, di rispondere ad alcuni bisogni primari del territorio, dando modo a tutti di rendersi utili alla società nell’ambito per il quale ognuno si sente più portato: la protezione civile o la difesa militare. Più nello specifico, attraverso la cosiddetta naja si intende garantire alle Forze armate un bacino più ampio di riserve mobilitabili, qualora la situazione internazionale non accenni a migliorare e risulti invece indispensabile affiancare ai professionisti attuali, di cui peraltro dovrebbe essere ridotto in modo consistente il numero, una più vasta platea di persone che abbiano svolto un servizio militare addestrativo basico.

Il testo specifica che il servizio, militare o civile, avrà una durata di otto mesi, dovrà essere assolto nell’arco di tempo tra i 18 e i 28 anni e sarà previsto indistintamente per uomini e donne, compatibilmente con gli impegni di studio, nella propria Regione. Sebbene i propositi siano meritevoli, è bene soffermarsi sulle motivazioni che hanno spinto il Ministro ad avanzare tale proposta e sulle conseguenze che questa potrebbe avere nell’immediato futuro, qualora il ripristino della naja dovesse effettivamente compiersi.

Queste dichiarazioni sembrano far intendere che il nostro Paese stia vivendo una crisi dei valori, un’emergenza educativa che caratterizza le nuove generazioni: i giovani appaiono privi di stimoli, incerti, prepotenti, dipendenti dalle tecnologie e dai social network, disinteressati e scostanti, narcisisti, insubordinati, apatici. Hanno pertanto bisogno di essere indirizzati, condotti verso il tipo di educazione che i loro padri hanno ricevuto. In pratica, hanno bisogno di essere riportati indietro al 1970, quando il benessere economico e sociale era al suo massimo splendore, quando il lavoro non mancava, le opportunità erano limitate ma pur sempre presenti, la famiglia era solo all’inizio del suo declino e tutto era ancora da scoprire. È il mondo in cui la Generazione X ha sempre vissuto e che, nostalgicamente, vorrebbe riportare in auge.

Peccato che costringere i giovani di oggi ad adattarsi alla società di ieri sarebbe come tornare a vivere senza i cellulari o le auto o le calcolatrici. Possibile, ma quasi innaturale ed è plausibile pensare che nessuno, neanche il più conservatore e tradizionalista tra noi, sarebbe disposto a farlo.

Nel parlare della proposta di reintroduzione della leva militare obbligatoria, risulta importante sottolineare quanto la classe politica ignori chi siano i giovani di oggi, quali siano le problematiche del mondo del lavoro (consideriamo il 45% di disoccupazione giovanile) e quali invece le criticità legate ad un sistema scolastico che non è in grado di fornire una didattica al passo con i tempi e un orientamento efficace ed in linea con le richieste della società.

Lo afferma un cyberpedagogista esperto di adolescenza e specialista in pedagogia clinica e media digitali attivo nella provincia di Varese, il quale aggiunge in via provocatoria: se è la società stessa ad essere immorale, se è la generazione adulta ad aver fallito nel delicato compito della trasmissione dei valori, se sono i genitori in primis a rimanere legati ad un principio narcisistico di benessere generale... come può un giovane essere confacente alle aspettative di chi desidera vederlo educato, altruista, civilmente impegnato? A queste condizioni, forse sono gli adulti ad aver bisogno della leva!.

Non diverso è il parere degli altri professionisti del settore educativo e della salute coinvolti nella presente ricerca tramite un sondaggio online, che è stato compilato da circa 60 esperti tra cui educatori, pedagogisti, psicologi, e insegnanti. Più della metà degli intervistati ha riconosciuto la necessità di pensare a proposte alternative al servizio militare obbligatorio che possano comunque andare a rispondere alle esigenze della società così come a quelle dei giovani: risulta fondamentale pensare a interventi che siano ideati e progettati da esperti del mestiere, educatori e pedagogisti in particolare, i quali sono in grado di fornire una attenta analisi del contesto, dei bisogni, delle modalità più adatte per farvi fronte. Non occorre che un militare insegni ad un giovane a rispettare le regole: ci sono modalità pedagogicamente rilevanti e scientificamente funzionali che prescindono dall’abuso di potere o dall’imporsi sterile dell’autorità. Tra le soluzioni alternative pervenute tramite il sondaggio, si sottolinea che sarebbe importante puntare sul servizio civile nazionale – già esistente e da potenziare, sul ripristino delle ore di educazione civica a scuola, su un rinnovamento del nostro scadente sistema scolastico, sulle politiche per la famiglia e il sostegno ai genitori nel difficile ruolo cui sono chiamati, sulla collaborazione tra agenzie educative che ruotano attorno al bambino e al giovane, sulle esperienze di aggregazione e di volontariato in contesti diversi da quello di origine, sulle pratiche di prevenzione del disagio, sui progetti di cittadinanza attiva e di buona cittadinanza, sullo sviluppo di una cultura umanistica che sia di tutti e per tutti e che ci aiuti a ritrovare quel senso di umanità e civiltà che a volte sembra perduto. Gli educatori, i pedagogisti, gli psicologi, gli insegnanti, i sociologi, i filosofi, gli antropologi e tutti i professionisti dell’umano pronti a questa sfida, occorre lasciarli operare.
 
È necessario che si comprenda che non esistono solo il bianco o il nero: il sentimento del “si stava meglio una volta” è anacronistico di per sé, poiché “una volta” non esiste più. È un errore dividere il mondo in noi e loro: se l’intento è quello di educare i giovani alla solidarietà, all’amor di patria e al rispetto dell’altro è inutile separare i buoni dai cattivi e sperare di essere dalla parte fortunata della barricata. 
 
È doveroso prendere le distanze dai sì assoluti e dai no imperativi: c’è un universo infinito di risposte, di causali, di varianti che non riescono a star chiuse dentro due lettere. Ecco, perciò, che bisogna riconoscere il grigio: forse è vero che si stava meglio una volta, ma indietro non si può tornare e l’unica cosa sensata da fare è prendere il buono che c’era un tempo e adattarlo al presente, senza snaturare ed impedire l’evoluzione delle cose. Dunque sì all’educazione dei giovani, ma con le modalità e i presupposti adeguati al nostro/loro tempo. Bisogna poi riappropriarsi della comunità: la comunità è ciò che ti fa sentire legato alle altre persone, dalle quale puoi ricevere sostegno o per le quali puoi essere un aiuto. Dunque sì a politiche educative, ma con i professionisti formati per tale compito i quali hanno il dovere di lavorare in sinergia con metodologie interdisciplinari. Bisogna, infine, innamorarsi del dipende: non ci sono categorie indivisibili, il mondo e gli uomini presentano miliardi di sfaccettature di cui occorre tener conto.
 
Dunque sì anche ai militari e al servizio di leva, ma bisogna iniziare a guardare alle individualità e qualità di ciascun giovane e proporre misure adatte a ciascuno di modo che ognuno cresca in libertà e in congruenza con il proprio essere. 
 
La Z che oggi campeggia sugli schermi di televisori, telefonini e computer è un'altra cosa e non rappresenta sicuramente lo spirito e le intenzioni dei nostri giovani. Dobbiamo fare in modo che la Z e la X diventino gli strumenti in grado di bloccare e, se necessario, distruggere sul nascere la follia psicopatica della guerra e chi la impersona e la sostiene.
 
Forse la cosa giusta sarebbe il non dimenticare quale sia la vera natura dell'uomo, a prescindere dagli step evolutivi e dalla stratificazione della storia, ridefinendo l'ossimoro della coesistenza del bene comune e l'univocità dei singoli, il "nostro" e il "mio", il "vostro" ed il "tuo".

Nemo

mercoledì 23 marzo 2022

Il mito delle rondini

Nell’antico Egitto le rondini erano associate all’Immortalità.

In Egitto una leggenda narra che la dea Iside di notte si trasformava  in rondine e volava  intorno al sarcofago di Osiride, lamentandosi con grida di pianto fino al ritorno del sole.

Nella tradizione dell’antica Grecia questo  leggiadro uccello era sacro ad Afrodite, in quella babilonese a Ishtar e nella tradizione Cristiana alla Vergine Maria, come  segno di Resurrezione.  Nel Cristianesimo è anche il simbolo della Resurrezione di Cristo perché la rondine ritorna in primavera, come la Pasqua, e segna il risveglio della natura.

Troviamo un significato analogo nella mitologia celtica, dove la rondine rappresentava la fecondità e i cicli che si alternano in natura.

Che splendida la rondine continuamente impegnata in voli armoniosi, e che in realtà passa ben poco tempo a terra. Pensate che  anticamente nelle carceri tatuarsi la rondine sul dorso di entrambe le mani faceva pensare alla libertà, visto che le mani si potevano mettere fuori dalle sbarre della cella. Anche le rondini tatuate sui fianchi sono associate alla libertà. E nei secoli passati pare che i marinai si tatuavano sul petto una rondine  che rappresentava il viaggio e la libertà d nostalgia di casa, visto che in primavera la rondine torna sempre nel luogo da cui è partita l’anno prima.

In Giappone  la randine è simbolo della  buona fortuna, la fedeltà nel matrimonio e la fertilità, ed è l’uccello simbolo dell’Estonia dove rappresenta il cielo blu, la libertà e la felicità eterna.

Per alcuni popoli del Malì, la rondine è simbolo di purezza perché non si posa mai sulla terra, considerata macchiata, impura, sin dall’inizio dei tempi. 

Nell’Islam è il simbolo della rinuncia e della buona compagnia ed è chiamata anche “uccello del Paradiso”.

"Senza dubbio, quando le rondini arrivano in primavera, si comportano come orologi” (René Descartes, Lettera al Marchese di Newcastle, 1646)


Cartesio lo aveva già intuito quasi 400 anni fa che alla base dei principi che regolano la migrazione delle rondini non poteva esserci la casualità. Tuttavia, ci hanno sempre insegnato che “una rondine non fa primavera”. Ma è davvero così?

Un nuovo studio tutto italiano svela i segreti che si celano dietro a uno dei fenomeni naturali più affascinanti, la migrazione delle rondini, cercando di rispondere a quesiti che molti si sono sempre posti: come fanno questi uccelli a sapere quando è il momento giusto per partire? E come fanno ad azzeccare quando la primavera tarda o anticipa, modulando i tempi della loro partenza così da trovare condizioni di arrivo adeguate?

Puntualità proverbiale

Lo studio, pubblicato sulla rivista Scientific Reports e frutto di una collaborazione fra il dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano e il dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università Statale di Milano, ha messo per la prima volta in discussione uno degli assiomi più famosi spiegando, al contrario, che questi uccelli, così come altri migratori, sono dotati di un misterioso “fiuto” che consente loro di capire quando è il momento giusto per intraprendere la migrazione di ritorno dall’Africa.

Così, dai dati raccolti nell’arco di un secolo su scala europea, è emerso che i singoli individui trascorrono l’inverno a sud del Sahara in luoghi in cui le temperature presenti nel periodo che precede l’inizio della migrazione di risalita sono strettamente correlate con le temperature che le rondini incontreranno al loro arrivo, settimane più tardi, nelle singole regioni d’Europa.

Questo vale sia per le rondini che dall’Africa meridionale migreranno verso l’Europa settentrionale, sia per le quelle che dall’Africa equatoriale raggiungeranno, invece, le aree del sud dell’Europa.

Il fiuto per il meteo

Secondo i ricercatori è possibile che le rondini, durante il loro periodo di permanenza invernale in Africa, dispongano di informazioni utili a prevedere le condizioni climatiche che incontreranno nelle loro destinazioni europee.
Questo spiegherebbe perché in annate in cui la primavera tarda ad arrivare, gli uccelli migratori giungano dopo, evitando così di incontrare il freddo; al contrario, nel caso di primavere anticipate, le rondini sarebbero in grado di regolare il proprio arrivo così da approfittare presto di tutti i vantaggi.

«Ovviamente non è necessario invocare la consapevolezza delle rondini nel compiere queste scelte: è la selezione naturale a premiare gli individui in grado di agire in modo adattativo, anche se queste scelte avvengono senza una consapevole congettura. Quel che è certo è che i cambiamenti climatici, i cui effetti sono diversi sulle temperature nelle diverse regioni del pianeta, potrebbero influenzare la sorprendente sincronia spazio-temporale che emerge dall’analisi dei dati di migrazione della rondine».

Alcune curiosità sulle rondini

"San Benedetto la rondine sotto il tetto”: nella tradizione popolare il primo giorno di primavera, il 21 marzo, segna anche il ritorno di uno degli uccelli più amati e festosi. Ma è proprio così? E quali altre curiosità porta con sé questo acrobata dell’aria?

Dove vanno le rondini in inverno? (E quando tornano indietro?)

In inverno le rondini europee migrano verso il Sud Africa in grossi stormi, percorrendo in cielo circa 11.000 km con un ritmo medio di 322 km al giorno. Viaggiano attraverso la Francia occidentale, attraverso i Pirenei e la Spagna orientale per passare il Mediterraneo a Gibilterra raggiungendo il Marocco. Iniziano quindi un viaggio attraverso il Sahara, attraverso Algeria, Nigeria e Chad, scavalcano l’equatore e arrivano in Congo a novembre. Arrivano in Sud Africa a Natale. Le rondini cominciano il viaggio di ritorno in Europa ai primi di marzo. E infatti non arrivano dalle nostre parti prima di fine aprile, e non per il giorno di San Benedetto.

Le rondini non toccano mai terra?

La risposta è “ni”. In realtà, per quanto raramente, le rondini possono toccare terra e ripartire. Più spesso arrivano a volare radenti il suolo, dove catturano gli insetti che si trovano a poca distanza da terra. Chi non può posarsi mai a terra è il rondone.

Il rondone è il maschio della rondine?

No, non solo si tratta di due specie diverse ma addirittura di due famiglie diverse: la rondine (Hirundo rustica) è un passeriforme, il rondone (Apus apus) un apodiforme. I due però hanno abitudini alimentari analoghe (catturano gli insetti in volo) e nidificano in luoghi sopraelevati, dai tetti degli edifici ai buchi nelle rocce.

A che velocità volano le rondini?

Quando cacciano le rondini di solito volano ad una velocità di circa 30-40 chilometri all’ora, anche se sono in grado di raggiungere velocità comprese tra i 50 e i 65 chilometri orari. Questo grazie a un corpo particolarmente snello, lunghe ali appuntite e un coda biforcuta che permettono anche una grande agilità e una forte resistenza. La forma del corpo infatti consente loro di risparmiare circa il 50-75% di fatica rispetto a uccelli della stessa famiglia.

Ma il vero jet è il rondone: è estremamente veloce e può raggiungere in volo dai 160 ai 220 km orari: velocità che sono raggiunte solo dal falco pellegrino.

Se vola in città... non è una rondine

Sfrecciano nelle sere d’estate staccandosi e tornando dai campanili, riempiendo di gridi l’aria. Ma non sono rondini: si tratta di rondoni. E se li vedete in periferia sono balestrucci. I primi vivono nelle costruzioni più alte, anche nei centri cittadini, i secondi più in periferia. Se volano velocissimi a grandi gruppi sono certamente rondoni. Le rondini preferiscono la campagna, dove nidificano in stalle e altri edifici rurali. Questo perché la presenza delle rondini è legata ai grandi mammiferi: in Africa possono essere bufali, gazzelle, in Europa mucche e cavalli.

Fedeltà e senso di orientamento

Come mai le rondini arrivano a primavera? All’inizio di questa stagione, le rondini lasciano le aree di svernamento nell’emisfero meridionale, dove si erano dirette intorno alla fine di settembre con i primi freddi, per raggiungere i territori di nidificazione nell’emisfero settentrionale.

Sono uccelli fedeli. Il volo è lungo e gli ostacoli da superare sono molti, il deserto del Sahara e il Mar Mediterraneo per fare degli esempi, ma alla fine le rondini tendono a tornare nel nido che hanno lasciato qualche mese prima, che però, purtroppo, non sempre ritrovano.

Tale aspetto vale anche per balestrucci (ordine Passeriformi) e rondoni (ordine Apodiformi) che condividono con le rondini le stesse abitudini di vita. Le specie sono accomunate dall’aspetto migratorio, dall’alimentazione e dalla particolare tecnica di caccia, spiega la Lipu.

Specie utili, perché?

L’Interesse per detti organismi risiede anche nei benefici collegati alla loro dieta. Queste specie, infatti, offrono un sensibile contributo alla riduzione di insetti quali zanzare e mosche, che cacciano rincorrendole in volo e tenendo il becco spalancato. Diversi studi scientifici riportano quantità di circa 6.000 insetti/giorno per coppia nella stagione riproduttiva, per complessivi 150.000 insetti catturati fino al termine di ogni covata.

Una città di medie dimensioni, come ad esempio l’area urbana di Rende e Cosenza, stimano gli esperti, può ospitare una popolazione di circa 10.000 individui tra rondini, rondoni e balestrucci, i quali, nei 4-5 mesi di presenza sul territorio, arrivano a mangiare ben 63 tonnellate di mosche e zanzare.

Rondini, rondoni e balestrucci stanno scomparendo

L’ambiente sta mutando rapidamente e queste specie sono in declino, sostiene ancora la Lipu. Come mai? Un’agricoltura sempre più intensiva, inquinata e meno tradizionale crea difficoltà per la vita della rondine. Cambiamenti climatici, desertificazione, perdita di biodiversità, uso di pesticidi sono tra i principali pericoli per questi uccelli migratori.

A dare un contributo negativo, poi, anche la mano dell’uomo con modificazioni urbanistiche e distruzione dei nidi. I proprietari di case e condomini di palazzi, infatti, intervengono spesso rompendo i nidi di queste specie, il più delle volte a causa di deiezioni che sporcano l’area sottostante al punto di nidificazione. Un aspetto, che, suggerisce la Lipu, può essere risolto installando una tavoletta poco al di sotto del nido stesso.

È frequente, per di più, che a causa di esigenze abitative ed estetiche vengano eliminati molti dei siti di nidificazione di balestrucci e rondoni, maggiormente legati agli ambienti urbani rispetto alle rondini. Stragi di uova e nidiacei, inoltre, si compiono quando singoli nidi o intere colonie vengono distrutti in seguito a rifacimenti delle facciate di case e palazzi e a ristrutturazioni dei sottotetti durante il periodo di nidificazione.

 

La redazione

Bibliografia
Rivista Natura

Agorà
QC

 

martedì 22 marzo 2022

Camelie e Castelli ai piedi del Monviso



Camelie e Castelli ai piedi del Monviso
Divagazioni extra-Canavesane

 

Domenica 20 marzo 2022. Partenza di buon'ora con destinazione Cannero per visitare la Festa degli Agrumi, importante ed ormai blasonata manifestazione che coincide con l'inizio della primavera con la suggestiva cornice del Lago Maggiore.

Poco prima della meta, una breve deviazione a sinistra della S.S.34 che costeggia il Lago Maggiore, ci porta al giardino di circa 5000 metri che nasconde una meraviglia della natura: uno dei 35 camelieti più importanti al mondo. Siamo a Villa Anelli, elegante villa di fine '800 situata nel comune di Gonte di Oggebbio.

Oggi, grazie allo sforzo di Benedetta e Andrea Corneo, discendenti del notaio milanese Antonio Berzio che nel 1872 comprò il terreno e poi vi edificò la villa, il parco conta oltre 415 tra specie e varietà diverse di camelie. Andrea Corneo (nella foto), nato e cresciuto nel giardino di Villa Anelli, è uno dei massimi esperti Italiani di Camelie. Laureato in Agraria è un appassionato botanico che attualmente ricopre la carica di Presidente della Società Italiana della Camelia.

Veniamo accolti da Orsola Poggi Corneo, moglie di Andrea, che ci conduce con sapienza e simpatia attraverso un percorso meticolosamente studiato per offrire al visitatore un susseguirsi di intense emozioni visive ed olfattive, percorrendo sentieri e piccoli terrazzamenti che suddividono l'esperienza in periodi storici ed aree geografiche.

In Giappone si dice che bisogna stare in silenzio per sentire il suono delle camelie (Tsubaki) che cadono a terra: i fiori, quando appassiscono, si staccano interi insieme al calice e per questo, nella tradizione del Sol Levante, sono diventati il simbolo di una vita stroncata prematuramente. La cultura cinese interpreta questa particolare caratteristica in modo completamente diverso e attribuisce alle camelie l’immagine della devozione eterna tra gli innamorati, così come in Corea, dove tradizionalmente sono inserite in bouquet e composizioni nuziali.

Entusiasti della breve ma intensa esperienza, vorremmo proporre ai nostri lettori un evento "vicino a casa" dal titolo Camelie e Castelli ai piedi del Monviso che si terrà nel Pinerolese nei giorni 2 e 3 aprile 2022 e del quale troverete qui di seguito la locandina promozionale con tutti i riferimenti per le Vs. renotazioni. L'evento riguarderà l'inaugurazione di un camelieto all'interno del magnifico Castello di Miradolo a San Secondo di Pinerolo. Noi ci saremo.

Nemo

 
Bibliografia e fonti
Società Italiana della Camelia
Villa Anelli a Oggebbio
La Camelia d'oro

 

Nota: Le attività di sabato 2 aprile sono aperte al pubblico a partire dalle ore 14:30, mentre la restante programmazione, sia di sabato 2 che di domenica 3 aprile, è riservata ai Soci, vecchi e nuovi.

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sabato 19 marzo 2022

"Tanti amici, Tanto onore"

Tutti li guardano con curiosità ed interesse, tutti chiedono di fare un selfie con loro, tutti fanno domande sulle loro belissime uniformi, sui gradi e sui ruoli che impersonano e rievocano.

Abbiamo ritenuto quantomeno doveroso dedicare loro questo post che presto diventerà una pagina permanente del nostro blog. Abbiamo forti affinità di valori, ideali ed interessi culturali; dal 4 dicembre 2021 sono nostri Soci Onorari ed hanno partecipato, oltre che alla conferenza tenutasi a Castelnuovo Nigra a seguito della intitolazione di una piazza al Milite Ignoto proposta da Canapisium, anche  alla conferenza di apertura, l'8 gennaio 2022, della mostra che abbiamo allestito e curato "Dalla Belle Epoque alle Trincee" presso lo storico Palazzo Marini di Borgofranco di Ivrea, nostra Sede principale.

Lasciamo ai lettori il piacere di "saperne di più" semplicemente continuando a leggere ...


Il Crest di Militaria 1848-1945

Il Risorgimento fu il periodo della Storia d’Italia durante il quale la nazione italiana – stanziata in gran parte nella penisola italiana (o, più esattamente, a sud dello spartiacque alpino), nelle isole di Sardegna, Sicilia e negli arcipelaghi minori – conseguì la propria unità nazionale.
Il termine richiama l’idea di una resurrezione della nazione italiana attraverso la conquista dell’unità nazionale per lungo tempo perduta. Tuttavia, per quanto questa visione idealizzata del periodo sia, da talune interpretazioni moderne, riveduta in un concetto più ampio della situazione italiana ed internazionale e la stessa unificazione venga vista a volte più come un processo di espansione del regno di Sardegna che con processo collettivo, il termine è ormai accettato ed ha assunto valenza storica per questo periodo di storia d’Italia.
Ma la ragion d'essere del Risorgimento italiano stà soprattutto nel valore degli italiani, uomini e donne, che ha portato alla creazione di un grande Stato, libero da oppressioni e dal giogo dello straniero invasore.
Torino ed il Piemonte seppero ergersi a paladini della causa nazionale: i “bogia nen” avevano dimostrato di avere un temperamento caparbio, capace di affrontare le difficoltà con fermezza e determinazione.

La bandiera del Gruppo

Il Gruppo Storico "MILITARIA 1848-1945" è stato fondato a Torino nel 2009, da un'idea del Cap.alp.ris Carlo MARTINELLI - impegnato dal 1979 nel settore delle rievocazioni storiche - con l'aiuto di alcuni amici che con lui condividono l'amore per la Storia e per le tradizioni dell'Italia. Le origini del Gruppo Storico risalgono tuttavia al 2001 quando venne creato il Gruppo Storico "MILITARIA" con lo scopo di ricreare i reparti militari sorti nella Città di Torino.

Il Gruppo Storico "MILITARIA 1848-1945", composto esclusivamente da volontari, vuole in particolare rivalutare il ruolo svolto dalle componenti popolari, maschili e femminili, andando oltre la Storia scritta da Re, generali e politici, scendendo nella Storia scritta, giorno dopo giorno, da uomini e donne del popolo che, con indosso un'uniforme o a casa ad educare i figli ed a crescere una famiglia, affrontavano i cambiamenti che i venti di libertà e democrazia portavano in Italia.

Attualmente il Gruppo Storico "MILITARIA 1848-1945" è costituito dalle seguenti componenti:

Grande Guerra 1915-1918
Una fedele ricostruzione delle uniformi e della vita dei soldati italiani, dai militari delle varie armi, ai cappellani militari, alle crocerossine, alle portatrici carniche. Nel rispetto dei sacrifici e del sangue versato dai nostri nonni durante quel cruento conflitto, il nostro Gruppo ha deciso di ricostruire momenti di vita militare nelle trincee, forti militari o anche semplicemente nei rari momenti di riposo dagli orrori della guerra. Per la prima volta nella Storia d'Italia, gli italiani, dal nord al sud, furono uniti per un ideale comune, anche se il massimo tributo di sangue lo diedero le masse popolari. 

Alpini 1883
E' questo l'anno in cui vengono adottate le "fiamme verdi" con la stelletta, meglio note come mostrine, per identificare gli alpini, le stesse che i nostri alpini portano ancora oggi sul colletto. E' la famosa uniforme con la bombetta nera, indossata fino al 1909 quando venne adottato il cappello con la penna che vediamo indossato con orgoglio dai "veci" alpini nel corso delle loro adunate annuali. Con tale uniforme il nostro Gruppo Storico intende ricordare i primi battaglioni alpini costituiti nelle vallate del Piemonte, animando con le nostre rievocazioni i forti, vere e proprie "sentinelle di pietra" poste a baluardo delle nostre frontiere occidentali.

Bersaglieri 1861
E’ l’anno dell’Unità d’Italia e nell’imminenza della ricorrenza dei 150 anni dell’avvenimento, il Gruppo Storico ha voluto prendersi l’impegno di creare una componente militare per ricordare tutti i volontari che corsero in Piemonte per arruolarsi nell’Esercito dell’allora Regno di Sardegna e la scelta non poteva che indicare il Corpo dei Bersaglieri, i soldati che hanno partecipato a tutte le guerre del nostro Risorgimento; questa componente, resa ancora più attraente dalla presenza delle cantiniere di reggimento, ha già riscosso notevoli apprezzamenti e riconoscimenti nonostante il breve periodo di esistenza.

Dame e gentiluomini
Non solo militari, ma anche dame e gentiluomini con gli abiti del periodo risorgimentale animano il Gruppo Storico consentendo una più vasta gamma di rievocazioni storiche: lontani dai balli di corte e dallo sfarzo dei palazzi nobiliari, i nostri rievocatori raccontano la storia di una Torino in fermento per le nuove idee liberali, conscia della responsabilità di prima Capitale d'Italia e di simbolo dll'Unità nazionale.

Ricerca storica
Un gruppo di appassionati, dedica il suo tempo allo studio ed alla ricerca delle fonti storiche e dei documenti necessari ad effettuare sia la costruzione degli abiti e delle uniformi, sia alla ricostruzione della vita quotidiana delle varie componenti del Gruppo Storici: i risultati della ricerca vengono utilizzati anche all’esterno del Gruppo Storico per realizzare conferenze o per fornire consulenze in campo uniformologico.
 
Bibliografia
 

Matilde di Canossa, una vita per la diplomazia

La storia si ripete e mai come oggi questo iconico personaggio si adatterebbe alla situazione  internazionale che stiamo vivendo, tra misteri, veleni, verità non dette, propaganda e fantastiche bugie si saprebbe muovere a suo agio per raggiungere ed ottenere la Pace. Ma chi potrebbe essere la Matilde di oggi?

Nemo

La storia

Nella seconda metà dell'XI secolo la duchessa Matilde di Canossa svolse un ruolo chiave nella lotta fra impero e papato; passata alla storia per aver fatto da mediatrice in una delle fasi più aspre della lotta per le investiture, è una figura affascinante e a tratti sfuggente. Se la fedeltà al papato, l'acume e le doti diplomatiche grazie alle quali riuscì a sanare una gravissima crisi politica sono incontestabili, la propaganda dei sostenitori e quella dei detrattori a lei contemporanei ci restituiscono di lei un'immagine sfocata e contraddittoria. 
 
Duchessa di Canossa

Matilde nacque fra il 1045 e il 1046 nel nord Italia, presumibilmente a Mantova. Il padre, Bonifacio di Canossa, marchese di Toscana, aveva sposato in seconde nozze Beatrice di Lorena, imparentata con l'aristocrazia imperiale tedesca. Ancora bambina perse il padre, ucciso durante una battuta di caccia, e poco dopo anche il fratello e la sorella morirono in circostanze poco chiare. Qualche anno dopo la madre si risposò con Goffredo il Barbuto, duca della bassa Lotaringia. Il matrimonio non piacque all'imperatore Enrico III poiché l'unione dei casati di Canossa e Lotaringia dava troppo potere ai due vassalli. Per questo Enrico fece arrestare Beatrice e sua figlia, Matilde, mentre Goffredo riuscì a fuggire in tempo. La liberazione delle donne avvenne nel 1056, alla morte dell'imperatore.
 
A questo punto, le cronache sono lacunose. Probabilmente dopo un passaggio in Toscana Matilde trascorse diversi anni con la famiglia in Lorena. Prima della morte del patrigno Goffredo, avvenuta nel 1069, Matilde venne fatta sposare con il figlio di lui, il fratellastro Goffredo il Gobbo. Fu un matrimonio infelice: si ritrovò sola, in un ambiente ostile, senza la madre che era rietrata in Italia e con un marito per cui non provava alcun trasporto. Inoltre perse una figlia subito dopo il parto. All'ennesimo screzio, Matilde abbandonò il marito e raggiunse la madre (un'attestazione delle cronache risale al gennaio del 1072). Da qui i documenti ne confermano a più riprese la presenza in diverse zone dei suoi domini dell'Italia centro-settentrionale, talvolta sola, altre con la madre o con il marito, che pure l'aveva raggiunta sperando di ricomporre le divergenze.

Matilde e Gregorio

Il 22 aprile del 1073 salì al soglio pontificio Ildebrando di Soana (o Sovana) col nome di Gregorio VII. Questi contattò da subito alcuni signori per stringere alleanze che lo sostenessero nella lotta per le investiture: da tempo infatti gli imperatori avrebbero voluto imporre la propria decisione sull'elezione dei vescovi, prerogativa che i papi rifiutavano. Gregorio scrisse dunque anche a Goffredo, a Beatrice e alla stessa Matilde. Su richiesta di Goffredo, il papa cercò fra l'altro di ricondurre Matilde a più miti consigli esortandola alla pazienza coniugale, ma lei non ne volle sapere di tornare dal marito. In compenso, si dimostrò un'abile mediatrice, sanando alcune tensioni verificatesi fra il pontefice e certi vescovi dei propri territori. Il suo ruolo si dimostrò via via sempre più fondamentale per il papa nel conflitto che lo opponeva all'imperatore, Enrico IV, eletto anch'esso nello stesso periodo.

Gregorio nel frattempo aveva interrotto i rapporti con Goffredo, reo di aver partecipato al concilio di Worms (gennaio 1076) e di aver votato per la sua deposizione, caldeggiata dall'imperatore. Iniziarono in quel periodo a circolare alcuni pettegolezzi su una presunta relazione fra Matilde e Gregorio. Non solo: un mese dopo, a febbraio, Goffredo venne ucciso. Le voci additarono la duchessa come mandante: le operazioni per screditarla crescevano di pari passo con l'aumentare della sua influenza.
 

L'umiliazione di Canossa


Gli eventi precipitarono. A fine di febbraio 1076 il papa scomunicò l'imperatore. Matilde venne dunque a trovarsi in una posizione piuttosto delicata: la duchessa non era infatti solo un'ardente sostenitrice della Chiesa, ma anche vassalla e cugina dell'imperatore. Per questo decise d'intervenire per placare la situazione. La scomunica, infatti, era un atto di una gravità inaudita, in quanto condannava chi la riceveva all'esclusione totale dalla società. Nel caso di un capo di stato, la situazione era ancora più grave in quanto lo privava di ogni autorità, creando così una crisi politica di portata internazionale.

Nei mesi che seguirono Matilde entrò in possesso di un'eredità territoriale sconfinata: alla morte del marito, si era aggiunta ad aprile quella della madre, e ora i suoi possedimenti andavano dalla Francia al centro-nord d'Italia. Le sue responsabilità per quanto riguardava il mantenimento di una pace europea erano dunque sempre più gravose.

Quando i principi tedeschi si riunirono a Treviri per discutere di un'eventuale deposizione di Enrico, questi, che fino a quel momento aveva ignorato la scomunica, capì che era tempo di correre ai ripari. Mentre il papa era ospite di Matilde nel castello di Canossa, lei indusse il cugino a fare pubblica ammenda. L'imperatore implorò il perdono del papa per tre giorni e tre notti fuori dal maniero, senza i simboli del potere, scalzo e vestito da umile penitente. Alla fine, grazie alla mediazione della duchessa, la revoca della scomunica arrivò. Quello di Enrico era chiaramente un pentimento di facciata, ma era indispensabile per mantenere gli equilibri politici restando saldo al potere.
 
 

L'imperatore Enrico IV supplica Matilde di Canossa e l'abate di Cluny d'intercedere per lui presso il Papa
 
L'umiliazione di Canossa non era che una tappa della lotta per le investiture, e Matilde continuò nel corso degli anni ad alternare le sue battaglie con l'imperatore e i tentativi di giungere a un equilibrio fra i due schieramenti.

Sostenitori e detrattori

Nel 1089, all'età di quarantatré anni, Matilde sposò il diciassettenne Guelfo il Grosso di Baviera. Si trattava ovviamente di un matrimonio eminentemente politico, e i due non vissero mai insieme. Come prevedibile, anche quest'unione fu molto chiacchierata. Se con i mariti i rapporti erano stati pressoché inesistenti, Matilde era stata comunque accusata dai suoi nemici di essere una donna lussuriosa, che si era concessa a una nutrita schiera di cavalieri. Fra i suoi presunti amanti vennero additati anche il vescovo di Lucca, Anselmo, sua guida spirituale, e come già detto papa Gregorio VII. Non solo. A lei vennero attribuiti almeno due omicidi: quello del primo marito e quello di Corrado, figlio dell'imperatore Enrico IV, avvelenato per mano di Aviano, il medico di corte fedele a Matilde
 
 

 
Fra i sostenitori della duchessa si trova invece il suo biografo, Donizone, che la rappresenta come una donna profondamente pia e devota. A tale proposito, v'è una leggenda: pare che Matilde mirasse al sacerdozio per le donne. Forse per prendere tempo, il papa le promise che le avrebbe concesso di officiare messa se avesse fatto costruire cento chiese. Lei morì a un passo dal traguardo, dopo aver fatto costruire la novantanovesima chiesa. Vero o meno, nel suo testamento lasciò tutti i suoi possedimenti al papa.
 

Bibliografia

Storica 20220319
Martina Tommasi 20220311
Foto: Cordon Press












giovedì 17 marzo 2022

17 marzo: Giornata dell'Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera

 
Unità nazionale, Costituzione, Inno, Bandiera, plenilunio.

17 marzo 1861: a Torino viene proclamato dal neo parlamento il nuovo Regno d'Italia, con Vittorio Emanuele II di Savoia come primo re d'Italia e Camillo Benso di Cavour presidente del primo governo del regno unitario.

Per un problema dell'automatismo che regola i tempi della pubblicazione dei post questo memento patriottico Vi giungerà con un giorno di ritardo. Ma siate sinceri: qualcuno se ne era accorto? Pochi, troppo pochi. I media sono occupati a parlare di guerra, pandemia, aumento dei prezzi ... Ma dove sono finiti gli Italiani? I Patrioti? Quelli che tirano fuori la bandiera e ne fanno orgoglioso sfoggio? Oggi è la nostra festa e anche se forse, visto il quadro generale, la voglia di festeggiare non è all'ordine del giorno, rivolgiamo almeno un pensiero alla nostra amata Patria.


La battaglia di Calatafimi

Un pò di storia

Sulla carta d’identità di ciascun individuo sono segnate informazioni essenziali che identificano la persona che la possiede: il nome, la data di nascita e il luogo. Se estendiamo questo concetto ad un elemento più vasto come ad esempio una nazione come l’Italia, la risposta è semplice: 17 marzo 1861, Torino, camera dei deputati del Parlamento subalpino

Il 17 marzo è una data fondativa per l’Italia come la conosciamo e, ancora oggi è giusto, nonché importante, ricordarla, anche se l’attuale assetto del Paese si raggiunge in step successivi (quali il 1866, con l’annessione del Veneto, il 1870 con la breccia di Porta Pia e la caduta dello Stato Pontificio e la Prima Guerra mondiale, quando vengono annesse i territori di Trento e Bolzano).

L’Italia unita sotto una sola bandiera, un solo inno, una sola identità, non è arrivata con un giorno o una legge ma a seguito di un lungo percorso fatto di ideali, lotte politiche, campagne militari, accordi segreti e, soprattutto, i plebisciti, ovvero una votazione. 

Il voto ha un ruolo centrale in questo percorso in quanto massima espressione di volontà e unione popolare che è anima pulsante del concetto di Nazione. Lo stesso che il 2 giugno 1946 ha sancito la fine del Regno d’Italia e la nascita della Repubblica, segnando un altro punto di svolta fondamentale per la storia del nostro Paese.

L’importanza di essere un popolo solo e unito


Perché ricordare l’Unità d’Italia ancora oggi, 161 anni dopo? È questa la domanda da porsi, soprattutto perché celebrare una ricorrenza che sotto il Regno d’Italia non è mai stata festeggiata (c’erano altre feste laiche, ad esempio c’era la festa dello Statuto, sancita dopo il 1861, e la festa dedicata al re) e che dal 2012, con la legge n, 222 del 23 novembre 2012 è diventata la Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera, una giornata di festa ideata per promuovere i valori legati all’identità nazionale.

Celebrare questi valori è come celebrare le proprie origini, il coraggio di quei “padri fondatori” che con spirito di patriottico sacrificio hanno lottato anni per arrivare all’obbiettivo di un’unica terra e un unico popolo.

Gli elementi e i valori che hanno fatto l’Italia

Uno degli errori che spesso si commette quando si ripercorrono le fasi che hanno portato alla proclamazione del Regno d’Italia è il soffermarsi più sui fatti che sulle idee. L’800 ma più propriamente il Risorgimento, è un periodo storico che non è altri che una fucina di idee, è quel momento di passaggio fondamentale per la storia dell’uomo, anzi dove questa trova la spinta propulsiva che lo ha catapultato nel futuro.

Non bisogna sforzarsi troppo per cogliere questi valori, l’800 è il secolo nel quale si concretizzano ad esempio le idee di Nazione e di Patria. La prima che definisce una grande comunità omogenea che sta alla base della legittimità delle istituzioni, a cominciare dallo Stato, che doveva comprendere tutti coloro che appartenevano ad una stessa comunità nazionale; a tal proposito, è in questa fase che nasce la necessità di identificare confini geografici più definiti.

Mentre il concetto di Patria invece, più elevato e puro, quasi che questa fosse un essere senziente della quale avere la massima cura e alla quale essere totalmente devoti. Il concetto di patria e quello di amore per la patria si trasformano sempre più in un culto dalle connotazioni religiose, ma laico; con i suoi dogmi, i suoi martiri e il suo credo. Si viveva, si lottava e si moriva per la patria.

Unirsi non sotto un re ma sotto lo Statuto

Oltre ai concetti astratti, c’è un elemento che più di tutti ha permesso a quegli uomini di “Fare l’Italia”: lo Statuto.

Forse questo più di tutti è stata la forza propulsiva che ha spinto molti degli Stati dell’Italia pre-unitaria a chiedere l’annessione al Regno di Sardegna tramite i plebisciti.

Nel Regno di Sardegna vigeva lo Statuto Albertino dal 1848, un documento importante che, seppur “antiquato” perché basato sulla costituzione francese del 1830, dava un senso di sicurezza in termini di diritti ai cittadini. Con la svolta liberale che si è impressa successivamente, quel documento si è poi evoluto portando, ad esempio, al diritto di eguaglianza sul fronte dei diritti civili e politici come l’inviolabilità del domicilio, la libertà di riunione, di stampa  e persino religiosa in quanto, seppur per gradi, venivano riconosciute oltre a quella primaria, la religione Cattolica Apostolica e Romana, anche il culto dei Valdesi, la religione ebraica, con il riconoscimento dei loro diritti civili e politici.

L’Unità d’Italia come coronamento del sogno risorgimentale

Che cos’è stato dunque il percorso dell’Unità d’Italia se non il “coronamento del sogno risorgimentale” che “ha suggellato l’identità di Nazione, che trae origine dalla nostra storia più antica e dalla nostra cultura.

Le generazioni che ci hanno preceduto, superando insieme i momenti più difficili, ci hanno donato un Paese libero, prospero e unito”. Ancora oggi, “ci stringiamo a corte”, cantiamo fieri quell’inno nazionale che non era destinato ad esserlo ma che racchiude la nostra storia. Un inno scritto proprio quando il sogno di un’Italia unita era solo quello, qualcosa di così astratto che solo nella sfera onirica era possibile immaginarlo. 

Ed è per questo che dobbiamo ricordarlo, perché è il momento in cui la moltitudine ha smesso i panni dell’individualismo scegliendo l’uno, accettando quel patto di fiducia che portava con sé il futuro che si racchiude in una frase, spesso erroneamente attribuita a Cavour ma pronunciata da Massimo D’Azeglio: “Abbiamo fatto l’Italia ora dobbiamo fare gli italiani”. 

TSP-Cronaca Italia


Quello che segue è tutto ciò che il Consiglio dei Ministri ha postato sulla ricorrenza

Il 17 marzo ricorre la “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera” in occasione del 161° anniversario della proclamazione dell’Unità d’Italia.
Le celebrazioni sancite dall’approvazione della Legge 23 novembre 2012, n. 222 e dalla circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri (prot. UCE 0002266 del 28/03/2013) prevedono le deposizioni di corone d’alloro da parte di rappresentanti del Governo presso le tombe che custodiscono le spoglie mortali di Vittorio Emanuele II, Camillo Benso Conte di Cavour, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi rispettivamente al Pantheon di Roma, a Santena (TO), al Cimitero Monumentale Staglieno di Genova e a Caprera.

Quest’anno saranno delegati, in rappresentanza ufficiale, i seguenti membri di Governo:

  • Pantheon per Vittorio Emanuele II: Sottosegretario di Stato al Ministero della Difesa, On. Giorgio Mulè.
  • Santena (TO) per Camillo Benso Conte di Cavour: Prefetto di Torino;
  • Cimitero Monumentale Staglieno di Genova per Giuseppe Mazzini: Sottosegretario di Stato al Ministero della Difesa, Sen. Stefania Pucciarelli;
  • Caprera per Giuseppe Garibaldi: Prefetto di Sassari.
 
La Redazione